6. Sangue innocente

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Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.

Erwin si accomodò al tavolo, scavalcando la panca. L'odore del caffè e latte arrivò a risvegliare gradualmente i sensi, mettendo in moto il cervello troppo stanco dagli eventi passati: quanti giorni erano trascorsi dalla cattura dei due Inglesi? Un paio, su per giù. Aveva già steso tutti i rapporti ed era pronto ad inviarli a Berlino. L'unico fascicolo che ancora rimaneva sulla sua scrivania riguardava il comportamento di Weilman. Si era deciso a lasciar cadere la questione, confidando che il capitano mettesse una volta per tutte la testa a posto. Quella, comunque, era l'ultima possibilità che gli concedeva: un altro passo falso ed avrebbe scritto all'Alto Comando o applicato direttamente la legge marziale. L'idea di macchiarsi dell'ennesimo omicidio non gli andava a genio, ma Weilman era una mina vagante, fuori controllo: se non fosse tornato sulla retta via, avrebbe dovuto prendere drastiche precauzioni.

«Ehilà! Posso sedermi?» una voce squillante lo distolse da quei pensieri. Sollevò il viso, ritrovandosi a fissare l'espressione stanza, ma soddisfatta di Hanji.

«Naturalmente» replicò, spostando frettolosamente il proprio vassoio per farle spazio. Al solito, la donna si era servita del caffè: tre tazze,  invece delle solite due. La notte doveva essere stata particolarmente pesante.

«Come è andata la trasfusione?» chiese, ma dall'atteggiamento allegro dedusse fosse stata un successo.

Il viso del medico, tuttavia, si atteggiò in una smorfia perplessa:
«Non hai ricevuto il mio messaggio?»

Messaggio?
«Mh... no»

«Te l'ho scritto ieri sera, appena terminata l'operazione. Ho incaricato una sentinella di portartelo»

«Non ho ricevuto nulla»

«Magari te l'ha infilato sotto la porta per non disturbarti ... e tu non lo hai visto»

Era possibile. Si era coricato tardi, ma poi aveva dormito di un sonno pesante, anche se costellato da incubi ricorrenti. I suoi compagni al fronte, le decisioni e le strategie, la morte di un intero squadrone sacrificato per strappare un importante nodo strategico agli Alleati. La sua promozione a Maggiore, guadagnata con il sangue ed il sacrificio degli altri. I soliti sogni che tornavano ogni notte a tormentarlo. Ormai ci aveva quasi fatto l'abitudine; per questo forse cercava di dormire il meno possibile, concentrandosi sul lavoro, sui resoconti e sulle scartoffie burocratiche da riempire.
«Sì, forse è così» ammise infine, limitandosi ad un sorriso stiracchiato «Allora, come è andata?»

«Alla grande!» ora sì che riconosceva l'entusiasmo della dottoressa, troppo intenta a intingere delle fette biscottate nel caffè per trattenersi «La trasfusione è riuscita alla perfezione. Un mirabile esempio di scienza e medicina, credimi! Ti rendi conto?! Sono la prima tedesca a riuscire in una operazione del genere. Non vedo l'ora che lo sappiano a Berlino. Potresti includerlo nei tuoi rapporti, vero?» un cenno d'assenso «Oh, sarà magnifico! Mi chiameranno nelle università più prestigiose: Colonia, Monaco, Francoforte. E, naturalmente, il giovane Church verrà con me. Dovrò mostrarlo ai colleghi, perché credano. Dovrà raccontare la sua disavventura e di come la mia equipe lo abbia salvato. Meeeeraviglioso, davvero. Oggi lo abbiamo tolto dalla morfina. Ha risposto benissimo: nessun cenno di dolore o altro. Ha persino voluto del the.»

«Sono felice per te, Hanji» lo era sinceramente «Te lo sei guadagnato.»

«è anche merito tuo, sai? Grazie per avermi dato la possibilità di provare. Se non fosse stato per il tuo appoggio, non avrei potuto fare niente. Quell'idiota di Weilman avrebbe troncato tutto sul nascere.»

«Che c'entra Weilman?» perchè doveva essere sempre presente? Era peggio del prezzemolo! Ovunque si girasse, inciampava in quel maledetto capitano e nel suo lungo naso impiccione.

«Ieri sera è venuto in infermeria. Ha cercato di bloccare la trasfusione. Mi ha dato della pazza e mi ha minacciato, ma... alla fine se n'è andato con la coda tra le gambe» c'era dell'orgoglio palesemente femminile in quelle parole. Finse di non sentirlo, concentrandosi sul succo del discorso.

«Ti ha minacciato?»

«Sì, ma... niente di grave. È solo un pallone gonfiato che non merita il nostro tempo. Ah, tu... credi che io sia pazza?»

Certo che lo era. Lo dicevano tutti alla base. Beh... forse non completamente, ma... senza dubbio era eccentrica, maniacale, ossessionata dalla scienza e dai suoi esperimenti bislacchi. Tuttavia, ra in gamba nel suo lavoro. Si applicava con passione, facendo sempre del proprio meglio e questo bastava ed avanzava; in quei tempi, era difficile trovare un buon medico.

«No, affatto» mentì, ancora concentrato sul precedente discorso «Che significa che "ti ha minacciato"?­» non voleva assolutamente lasciar cadere quell'argomento. Questa volta, Weilman aveva davvero esagerato: come si permetteva di discutere un suo ordine davanti a Fraulein Zoe? E di arrivare persino ad intimidazioni personali? Forse c'era ancora spazio per una aggiunta nei rapporti per Berlino.Poteva soprassedere sui comportamenti che teneva con lui, ma... Hanji cosa c'entrava? Faceva soltanto il suo lavoro, lei. Sacrificava tempo ed energie per salvare vite, fossero esse tedesche o inglesi e... quello era il ringraziamento? Perché non era andato a discutere direttamente con lui? Sperava che una donna fosse più facile da sottomettere ai suoi capricci? Era davvero un imbecille.

«Beh, prima si è presentato con la sua solita aria sbruffona, dicendo che la mia trasfusione non era autorizzata! Poi, quando gli ho spiegato che ne eri al corrente, ha...»

«Herr Major!» una voce interruppe quella chiacchierata. Un giovane soldato si presentò al tavolo, scattando sull'attenti, prima di riversare sui due un fiume improvviso di parole «Correte, presto! Un camion trasporto è saltato in aria nei pressi di Achicourt. Ci sono morti e feriti ovunque.»

Erwin si alzò di scatto, abbandonando immediatamente la colazione «Prepara l'infermeria, Hanji. Prendi tutto quello che ti serve dalle scorte, sgombera più letti possibili!» ordinò. Recuperò soltanto il berretto nero, calcandoselo in testa, prima di allontanarsi in fretta verso il garage, seguendo il messaggero.

***

Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Campagne di Achicourt

Achicourt era un piccolo villaggio contadino alle porte di Arras. Erwin non ci mise molto a raggiungerla, premendo l'acceleratore a tavoletta. Guidò lungo la strada sterrata, fermandosi ad una ventina di metri da uno spiazzo antistante una fattoria: cinque uomini erano allineati in silenzio, il capo chino e le mani legate dietro la schiena. Poco oltre, l'inferno: un camion ribaltato ed avvolto dalle fiamme, mentre i corpi di almeno una ventina di militari tedeschi giacevano sparpagliati qui e là. Qualcuno si stava affaccendando attorno ai feriti, cercando di caricarli su ambulanze e mezzi di fortuna.

«Cosa è successo?» chiese, immediatamente, raggiungendo i soldati che pattugliavano il cortile del podere.

«Herr Major!» conosceva quella voce, viscida e sottomessa.

Si voltò, incrociando lo sguardo sottile e rugoso di Weilman. Si costrinse a rimanere calmo, a concentrarsi sull'accaduto: non era il momento per discutere delle minacce al medico, dell'insubordinazione, degli ordini scavalcati e contestati. Adesso dovevano dedicarsi esclusivamente all'attentato.
«Herr Kapitan» mimò un piccolo saluto, tornando ad accennare ai prigionieri «Cosa è successo? Eravate presente?»

«No, Major. Sono arrivato anche io da poco» Si stava sforzando di collaborare? «Ho interrogato i Francesi, che ovviamente negano tutto. A quanto sembra, il camion stava transitando per questa strada quando è esploso un ordigno.... Forse una mina. Il mezzo è saltato in aria. Si contano circa una decina di morti accertati e dodici feriti, compreso l'autista. »

Una mina? Possibile, se di fabbricazione casalinga, anche se... quei contadini non avevano affatto l'aria di ribelli: al contrario, i loro visi spaventati erano coperti di polvere e lacrime, mentre le donne si stringevano ai mariti o proteggevano i bambini dietro alle ampie gonne.

Si avvicinò ad un uomo dalla folta barba bionda e la carnagione abbronzata. Indossava ancora la camicia da notte, come se fosse stato arrestato all'alba, appena sveglio. Quella cosa... non aveva senso! Da quando gli insorti andavano a letto durante un attentato? Non quadrava. Solo lui, però, sembrava ancora in pigiama. Gli altri, bene o male, vestivano abiti frettolosamente infilati: scarpe slacciate, ciabatte, dei pantaloni macchiati e giubbetti slacciati. Non tornava.

«Parli tedesco? O inglese?» chiese, mentre il francese mimava un cenno d'assenso.

«Inglese» molto bene. Sarebbe stato più semplice per tutti e Weilman avrebbe sentito con le proprie orecchie.

«Siete accusati di terrorismo; di aver fatto esplodere un camion tedesco, ferito ed ucciso dei soldati. Cosa avete da dire?»

«Niente, signore! Non siamo stati noi! Credetemi, vi prego. Siamo... brava gente...» la voce era timida, tremante «Contadini! Lavoriamo sodo... non... mia moglie ve lo può confermare! Ieri sera... era con me.»

«Come possiamo fidarci delle parole della tua puttana?» Weilman si era intromesso, scatenando delle grida di disprezzo. I prigionieri si agitavano, pestavano i piedi, ringhiando rabbiosi.

«Herr Kapitan» lo riprese, scoccandogli una occhiata furente «Sto parlando con il Francese. Siete pregato di non intervenire»

«Perché? Mi sembra evidente che siate incline a credergli. Per quanto ancora permetterete ai bastardi di prendersi gioco di noi? Pensate di lasciare andare anche questa sudicia feccia?» Altri mormorii, ma dai soldati tedeschi: stavano appoggiando quel folle discorso. Occhiate scambiate, cenni d'assenso, le urla dei feriti come sottofondo «Guardate cosa hanno fatto! Hanno... distrutto un nostro mezzo, ucciso bravi fanti, sputato sulla gloriosa Germania! Per quanto ancora lo permetterete, Herr Major?»

Non doveva rispondere a quelle provocazioni. Sarebbe caduto nella trappola del capitano, che lo avrebbe usato per i propri scopi malati. Scosse il capo, sforzandosi di ignorare quelle parole e tornare ai prigionieri:
«è come dice? Avete davvero fatto esplodere il camion?»

«No! No signore! Credetemi, vi prego... vi scongiuro! Siamo... brave persone, lavoratori e... padri di famiglia.»

«Questo lo vedo, ma... non è una giustificazione. Potete essere padri ed assassini contemporaneamente»

Si sentì tirare un lembo del cappotto. Abbassò lo sguardo, incrociando quello disperato di una donna, raccolta in ginocchio ai suoi piedi:
«Vi prego comandante,... signore... mio marito non è un partigiano. Nessuno di loro lo è! Abitiamo qui, questo è vero... ed è la nostra sfortuna! Siamo braccianti. Solo questo» singhiozzi, spalle esili scosse dal pianto «Vi supplico... noi...»

Non le rispose, indietreggiando semplicemente di un passo. Lasciò che un sergente l'aiutasse a rialzarsi e la allontanasse. Tornò a spiare i prigionieri: erano contadini, sì... non ribelli. Non apertamente, almeno. Forse simpatizzanti, ma.. nessuno gli sembrava così abile da costruire un ordigno, posizionarlo in una buca ed attendere che un contingente tedesco ci passasse sopra. E poi... che senso aveva tornare a dormire dopo un attacco simile? Per giunta a meno di cento metri di distanza. Assurdo! I colpevoli, senza dubbio, se l'erano data a gambe, scaricando la colpa su quei miserabili. Erano capri espiatori. Scosse nuovamente il capo, cercando di riordinare le idee: cosa doveva fare? Lasciarli andare come se nulla fosse? Era probabile che non fossero del tutto innocenti: forse avevano ospitato gli attentatori sotto il loro tetto? Proteggere dei partigiani era un reato capitale. Non sarebbe stato nel torto, se avesse ordinato una fucilazione. Era davvero necessaria? Quelle persone gli sembravano soltanto ingenui lavoratori di campi, tirati in mezzo per errore. Avrebbe potuto, semplicemente, scagionarli e liberarli. Però... il malcontento tra i soldati sarebbe cresciuto; le occhiate storte gli pesavano sulle spalle come macigni, i sussurri gli ferivano le orecchie e sapeva già cosa dicevano: Il maggiore si stava rammollendo. Non era in grado di prendere decisioni lucidamente. Si lasciava trasportare dai sentimenti. Offendeva l'esercito nazista. Ingiuriava la memoria dei morti. Sputava sul codice militare. E per cosa? Per salvare le vite dei traditori, come se questi atti caritatevoli potessero lavare una coscienza sporca? Forse Herr Major non era la persona adatta a guidarli, forse avrebbero dovuto riporre la loro fede nel capitano. Lui sì che avrebbe saputo condurli alla gloria, all'onore che la patria richiedeva.

Cazzate! Un mucchio di cazzate! Avrebbe voluto urlarlo in faccia a quegli idioti: non esisteva più nessun ideale tedesco. La Germania stava marcendo dall'interno, ma non poteva fare altro che servirla, per proteggere il popolo, per salvare quella libertà che ancora si celava da qualche parte. Come? Semplicemente così, attenuando l'odio che i popoli sottomessi provavano, cercando di ristabilire un equilibrio, sperando di non dover mai incrociare la vera resistenza francese, di non dover prendere decisioni drastiche ed irreparabili. Eppure... una decisione era ora richiesta: liberare gli ostaggi? O punirli comunque, ignorando la loro presunta innocenza? Vivere con il dubbio d'aver fatto una scelta sbagliata o con il disprezzo dei soldati ed il trionfo di Weilman? Quell'uomo... era infido e perfido. Non poteva permettergli di piazzare le mani sulla base di Arras, men che meno di scavalcarlo nuovamente.

«Herr Major» ancora quella deprecabile voce. Cosa voleva?! Non gli servivano i suoi viscidi consigli da serpente «Cosa intendete fare?»

«Nulla» Erwin si pentì di quell'ammissione nell'attimo stesso in cui la pronunciò. I fanti iniziarono a protestare a voce alta, coprendolo di fischi e insulti. Non gli importava, ma... la gerarchia del comando si stava rapidamente sgretolando. Non poteva assolutamente permetterlo. Fino a prova contraria, la sua parola era ancora legge! «State zitti, stupidi cani!» ringhiò, voltandosi verso i militari. In un attimo, il silenzio tornò a regnare «Non abbiamo sufficienti prove per capire se siano davvero colpevoli o meno. Non condannerò uomini innocenti senza un'indagine. Li poteremo alla base e li interrogheremo ancora, finché la verità non verrà fuori. Qualcuno ha qualche obiezione?»

«Io ho una obiezione!» non aveva dubbi. Lo sapeva che il capitano avrebbe colto al volo quell'occasione! Che stupido! Gliel'aveva servita su un piatto d'argento.

«Allora parlate, Herr Kapitan! Saremo lieti di ascoltarla!»

«Con il dovuto rispetto, Maggiore, queste sono evidentemente delle spie francesi. Non sono stati loro a posizionare l'ordigno? Bene... ma avranno sicuramente dato rifugio agli attentatori. Anche questo è un reato punibile con la morte. Me ne fotto se le loro donne affermano il contrario: non sono credibili. Non sono testimonianze valide» di nuovo cenni d'assenso. Si stava riguadagnando il favore dei soldati «Sappiamo tutti che sono colpevoli! Lo sapete anche voi, ma fingete di ignorarlo perché... vi fa comodo. Vi divertite a mostrarvi misericordioso, ma... così insultate i nostri caduti. Guardatevi attorno» quanto era teatrale, quel buffone. Sottolineava ogni frase gesticolando continuamente «I nostri fratelli sono morti! I loro corpi sono ancora caldi e voi vi rifiutate di vendicarli. Sputate sulla loro memoria e sul loro sacrificio. E per cosa? perché non avete il coraggio di prendere una decisione da vero ufficiale? Molto bene! La prenderò io.» lo stava scavalcando?

«Non osate! Avete passato il limite, Weiman. Scriverò a Berlino sta sera stessa e non importa che vostro padre sia un generale, un sindaco o il Fuhrer in persona! Chiederete trasferimento o darete le dimissioni.»

«Anche io scriverò a Berlino, non temete! Metterò in luce il vostro comportamento codardo. Prima salvate due fottuti inglesi, poi spedite dei ribelli in un campo prigionieri... infine autorizzate una trasfusione per accontentare quella stronza maniaca! Sono il solo, qui, che pensa al bene dei nostri commilitoni?»

«Allora illustratemi come uccidere cinque uomini possa portare del bene, avanti! Appagherà solo il vostro orgoglio.»

«Appagherà la sete di vendetta! Siamo stanchi d'essere il bersaglio di questi fottuti Mangia-rane. Dobbiamo dare un segnale forte. Far capire cosa succede a mettersi contro la Germania.»

Era impossibile avere un confronto decente. Erwin strinse i pugni, frustrato. Avrebbe volentieri spaccato la faccia di quell'idiota, ma la truppa lo stava sostenendo: ad ogni parola di Weilman vedeva nuovi cenni d'assenso, ammissioni sussurrate, e sguardi conquistati. Stava perdendo il rispetto dei suoi soldati: una truppa senza rispetto per la gerarchia sfocia inevitabilmente nel caos. Non poteva permetterlo, così come non poteva permettersi di ignorare il volere comune. Si rivolse ai militari, alzando la voce:
«La pensate come lui? Ditelo apertamente! Chi è d'accordo con Herr Kapitan

Una mano si sollevò timidamente e poi un'altra ed un'altra ancora. Gradualmente, il cielo si riempì di braccia alzate. Sbuffò, sentendo una morsa al petto: la sconfitta bruciava  e non poteva evitarla.

«Molto bene» disse, ignorando l'aria trionfante di Weilman «Fucilate gli uomini, lasciate che le donne e i bambini tornino alle loro case»

«No!» le mogli erano cadute in ginocchio. Piangevano, supplicavano e stringevano i figli al petto. Non vi badò, limitandosi a fissare il vuoto: non voleva guardare nessuno. Si sentiva così sporco, così sbagliato. Aveva dato l'ordine peggiore, lo avrebbe rimpianto per tutta la vita. Non meritava di comandare; meritava gli incubi, le notti insonni, il peso di quelle anime sulla coscienza. Altre vite che si aggiungevano a quelle che aveva preso. Affondò le dita nelle tasche, prendendo ad incamminarsi. Non voleva assistere. Avrebbe lasciato che Weilman se la sbrigasse da sé e....

«Siete troppo clemente, Herr Major! Anche loro meritano di morire» ancora lui!  Non era contento? Non era soddisfatto? Erwin si voltò, raggiungendolo con un paio di falcate. La mano destra arpionò il bavero del capitano, strattonandolo.

«Non siete ancora sazio, capitano? Volete ancora sangue, per caso? Violenza gratuita, perché è la vostra unica fonte di sostentamento? Non troverete altro qui, non oggi! Mi avete visto fare la cosa meno clemente di tutta la mia vita.» lo spinse all'indietro, osservandolo barcollare malamente «Correte a lamentarvi dal vostro pomposo padre. Ditegli come il maggiore Smith vi ha quasi preso a schiaffi. Siete... la cosa peggiore che potesse capitare in questo esercito. Voi... e tutti quelli che la pensano come voi.»

Era inutile combattere oltre. Per cosa stava spendendo il suo tempo? Per salvare una nazione che non desiderava essere salvata? Per proteggere un popolo così ottuso da affidare la propria guida a degli avvoltoi? Per tutelare degli ideali di superiorità ariana in cui, ormai, non credeva nemmeno più? Era stato uno sbaglio, il nazismo. Non avrebbe dovuto cedere così facilmente a quelle promesse ammalianti. Un errore di gioventù che avrebbe pagato per il resto della sua vita. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, scoprendole ancora una volta lorde di sangue innocente: non sarebbe mai riuscito a pulirle, a dimenticare quegli orrori, a superare la fiducia tradita dei sottoposti, di tutti quei soldati che aveva guidato in mille battaglie. A rinnegare quel successo ottenuto spendendo le vite dei compagni ed ora... quelle di padri senza colpe.

Scosse il capo, sforzandosi di scacciare quei pensieri, di recuperare quell'aria imperturbabile che lo contraddistingueva:
«Finite il lavoro e tornate alla base, Herr Kapitan.» aggiunse, allontanandosi lungo la strada, verso la carcassa del camion che ancora bruciava.

«Berlino lo verrà a sapere!» quella minaccia gli scivolò addosso. Ignorò Weilman, le occhiate dei soldati, le urla disperate delle mogli e i pianti dei bambini. Ignorò quel «Vive la France!» che risuonò poco prima degli spari. Scappò sulla via, le spalle cariche di nuovo dolore.

***

Erwin aveva perso il conto del tempo. Si era allontanato dalla cascina, raggiungendo i resti fumanti del camion. Alcuni soldati avevano portato via i copri inerti, scavando delle buche poco lontano. Nessuno, tuttavia, gli aveva badato. Si era seduto su un sasso, piegando le ginocchia e prendendosi la testa tra le mani. Che cosa aveva fatto? Aveva ceduto alle provocazioni di Weilman, gli aveva permesso di stringerlo in un angolo, di metterlo alle strette: lo aveva costretto a scegliere tra la riconoscenza dei nemici e quella dei propri uomini. Non avrebbe dovuto cascarci, Avrebbe dovuto difendere quei francesi sino allo stremo. Non erano loro i colpevoli. Aveva condannato persone innocenti...  Per cosa? Non lo sapeva. Per l'orgoglio tedesco, per accontentare la truppa, per far tacere quell'idiota del capitano. Niente di tutto ciò valeva le vite sprecate, la disperazione delle donne, le famiglie spaccate. Era un maledetto assassino, ecco cos'era! Più si sforzava di aggiustare i torti e meno ci riusciva. Che Weilman scrivesse pure ai generali. Anzi, che si prendesse il titolo di Maggiore. Tantoera quello a cui ambiva, no?

Posò lo sguardo azzurro sulle mostrine, ancora appuntate sulla giacca di panno scuro. Non le meritava; per un momento provò la tentazione di strapparle via e gettarle nel fango. Le sue dita, però, erano troppo sudice persino per toccare quell'oro glorioso. Quante altre morti avrebbe dovuto sopportare, ancora? Quante vite doveva riscattare perché la sua coscienza trovasse pace? Quante battaglie e strategie da imbastire, quanti soldati uccisi, quanti civili stroncati?

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