20. Lumeau

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Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Lumeau, dintorni di Orleans.


Albeggiava.

Striature rosate coloravano il cielo limpido, mentre la luna andava ritirandosi oltre l'orizzonte. Qualche nuvola contornava il sorgere del sole, i cui raggi lontani bagnavano il paesaggio ad oriente. L'aria fredda gli sferzò ancora una volta il naso, accompagnata dal profumo fresco dell'erba bagnata di rugiada. Una pallida foschia regnava sulle campagne di Poupry, nascondendo i casolari abbandonati, i carri riversi ai margini delle strade e qualche capo di bestiame smarrito. Era una nebbiolina rada confronto a quella che era calata durante la notte: ne rimaneva solo qualche traccia lungo il terreno sfregiato dai crateri delle bombe. Schegge di ferro giacevano tra gli appezzamenti ed il ciglio della strada, segnando il recente passaggio degli aerei Raf.

Levi si strinse nel mantello ruvido, affondandovi il mento. Aveva dormito poco mentre il sidecar sobbalzava qui e là lungo le vie che da Parigi si snodavano verso la periferia. La motocicletta era davvero un catorcio: troppo lenta e scomoda per una fuga. Non era adatta alle strade sterrate, ma a quelle eleganti di una grande metropoli. Che diamine era saltato in testa a Nile? Quale parte del concetto "partenza precipitosa" non gli era chiaro? Avevano impiegato il doppio del tempo per un tratto che generalmente non richiedeva più di tre ore. L'ago del contachilometri segnava velocità al limite del deprimente; se avessero camminato, forse avrebbero impiegato meno. Probabilmente, però, quel ritardo era anche colpa del buio e della nebbia: avevano sbagliato strada più volte, seguendo indicazioni confusionarie.

«Mancano circa quaranta chilometri ad Orleans» disse, accennando ad un cartello a lato della strada. La freccia in legno bianco li invitava a proseguire dritto «Di questo passo, saremo là entro... domani?»

«Non essere melodrammatico» la voce di Erwin conteneva una sfumatura spossata; era comprensibile: il biondo aveva guidato per tutto il tempo, senza concedersi neppure una pausa «Penso che in un paio d'ore saremo lì. Troveremo un posto dove fare colazione, benzina e ripartiremo»

«Te la senti di guidare ancora?»

Un cenno d'assenso:
«Sì. Preferisco fare tappa in qualche paesino fuori mano. Orleans è affollata e le probabilità che ci riconoscano sono piuttosto alte»

Tornò a fissare l'area circostante: eccetto fattorie, frutteti e qualche pascolo non vi era molto altro. La strada d'asfalto malmesso correva dritta, intervallata soltanto da qualche crocevia e...

«Erwin» richiamò immediatamente l'attenzione del biondo «C'è qualcuno sulla strada» tese l'indice a sottolineare un capannello di figure scure, a meno di chilometro. Un'auto era posizionata di traverso, mentre tre uomini armati gironzolavano nei pressi della vettura «Credi ci sia stato un incidente?»

«No. È un posto di blocco. Weilman ci sta cercando. Non mi stupisco che abbia reagito tanto in fretta»

«Speravo ci pensasse ancora a Parigi»

«Anche io, ma... evidentemente sa che siamo fuggiti. Forse ci ha visti o qualcuno ha fatto la spia»

«Nile?»

«Non credo. Più probabile uno dei suoi sottoposti»

«E se fosse una casualità? Un semplice controllo routinario?»

«è possibile, ma affrontarlo è troppo rischioso»

Una mano si alzò in lontananza, accompagnata da un tono gracchiante:
«Alt! Ihr stoppen!» tedesco e, poco dopo « Arrȇtez-vous!»

Si strinse dietro al parabrezza del carrozzino, quasi fosse un nascondiglio sicuro. Era un posto di blocco quello e quei maledetti cercavano proprio loro. Avevano parlato in tedesco, consapevoli d'essere capiti da almeno uno dei due fuggiaschi. Solo per salvare le apparenze erano poi passati al francese. La mano sollevata si avvicinava sempre di più. Nuovi dettagli balzarono ai suoi occhi: le uniformi nere, il simbolo del Reich cucito sulle maniche, gli stivali lucidi e le armi cariche che lentamente andavano sollevandosi in loro direzione.

«Reggiti» quell'unica parola lo spinse ad aggrapparsi al sedile dell'ovetto stringendo le ginocchia al petto.

«Cosa vuoi fare?» domandò, ma senza ottenere risposta.

Con una stretta curva, il sidecar cambiò improvvisamente direzione, infilando una viuzza sterrata, tra un campo incolto ed un meleto. L'unico cartello indicava "Lumeau, 4 miles". Le ruote sobbalzarono, mentre il compagno dava fondo alla manopola del gas; uno scossone quasi lo spedì dritto contro il lunotto ed un secondo rischiò di farli ribaltare. Ad ogni metro, le gomme stridevano contro i sassi; il motore rombava sinistramente, come sottoposto ad una prova troppo grande. Persino il manubrio sembrava sul punto di svitarsi.

Un rumore di sirene in lontananza e di una vettura sui ciottoli: i soldati erano saliti in macchina e si erano gettati all'inseguimento. La Chevrolet nera non sembrava passarsela meglio della loro motocicletta, ma era comunque più veloce. Un colpo di pistola arrivò a ferirgli i timpani, seguito da altri due tonfi.

«Ci hanno scambiato per un bersaglio mobile!» gridò, per sovrastare il baccano generale. Levi si voltò, frugando nelle bisacce sino a recuperare una Mauser. Caricò la canna puntandola davanti a sé. Era dannatamente difficile sparare in quelle condizioni: doveva riprendere la mira ad ogni sobbalzo, rischiando di colpire alla cieca «Maledizione! Guida diritto, cazzo»

«Sto facendo del mio meglio» un altro scoppio arrivò a nascondere quelle parole. Un poliziotto si era sporto dal finestrino, puntando un fucile in loro direzione.

Levi premette il grilletto consecutivamente. Una, due, tre volte: scorse i proiettili forare il cofano ed il parabrezza, mentre uno schizzo di sangue inondava il finestrino del guidatore. Sorrise sinistramente: la fortuna era dalla sua parte. Nonostante le pietose condizioni di tiro, era comunque riuscito a colpire l'autista. Forse questo sarebbe stato sufficiente a frenare l'inseguimento...

Uno boato arrivò a frantumargli le orecchie, mentre il sidecar perdeva completamente aderenza: la gomma posteriore era esplosa, facendo sbandare la moto. I tentativi di Erwin di mantenerla sulla retta via furono del tutto inutili: il veicolo si impennò, incespicando tra gli arbusti e le radici degli alberi di un vicino frutteto. Un fosso apparve davanti al manubrio e sterzare non servì ad evitarlo: il sidecar si ribaltò su un fianco, sbalzando i passeggeri di qualche metro. Si ritrovò a ruzzolare al suolo, tra i rami secchi ed il fango; il casco cozzò una pietra ruvida, mentre una fitta lancinante gli attraversava la fronte. Sussultò quando andò a sbattere contro il robusto tronco di un melo, graffiandogli le spalle e la schiena.

«Merda» sibilò, cercando di rialzarsi. Aveva le mani impastate di terriccio; gli abiti erano praticamente da buttare: la camicia si era strappata in più punti e i pantaloni si erano macchiati sulle ginocchia e sulle cosce.

Una mano robusta lo tirò bruscamente in piedi, obbligandolo a muoversi: Erwin lo aveva afferrato per un braccio e lo stava trascinando attraverso il frutteto. Dalle spalle del biondo pendevano le bisacce, mentre le dita della sinistra stringevano il calcio della Mauser: in qualche modo, era riuscito a recuperare il loro magro bagaglio. Provò una ondata di sollievo e gratitudine: nella sua sacca da viaggio giaceva ancora la lettera di Farlan. Non poteva permettersi di perderla.

«Stai bene?» si sentì chiedere, mentre il Maggiore lo spingeva avanti «Corri! Ce la fai?»

Non era ferito, solo un po' scombussolato e pestato. Annuì, scattando velocemente in avanti e macinando metri sotto le suole degli stivali, rese scivolose dall'umidità e dal limo. C'era, tuttavia, una domanda che gli lambiccava il cervello.

«Dove stiamo andando?»

«Non ne ho idea. Corri e basta!»

Non era affatto confortante quel pensiero, ma cos'altro potevano fare? L'unica speranza era trovare un nascondiglio sicuro nella vastità di quei campi oppure cercare d'essere più rapidi degli inseguitori. Passi affrettati giungevano alle loro spalle, accompagnati da imprecazioni in tedesco stretto.

Accelerarono l'andatura, confondendosi tra le piante e gli arbusti, raggiungendo i margini della piantagione, correndo tra i canali di acqua e le zolle già arate. Le gambe si facevano più pesanti ad ogni passo, le membra stanche minacciavano di non reggerli ulteriormente, mentre ombre sfocate danzavano davanti ai loro occhi, come risultato di una notte insonne.

Gradualmente, le voci sfumarono e le sagome degli inseguitori scomparvero all'orizzonte: avevano rinunciato alla caccia? O trovato un modo più semplice per catturarli? Forse stavano tornando indietro per andare ad avvisare Weilman, per chiamare rinforzi e braccarli da più vicino.

Tornò a fissare davanti a sé: il paesaggio monotono, fatto di infinite distese coltivate, si apriva su un piccolo paese diroccato. Le bombe sembravano averlo devastato di recente: l'orologio del campanile ancora funzionava, malgrado il tetto della chiesa fosse completamente sfondato. I ruderi delle case si stagliavano nel sole del mattino apparendo, se possibile, ancora più spettrali: i muri portanti erano crollati, riversando nelle vie cumuli di macerie ancora fumanti. La polvere galleggiava in quel paesaggio trasandato, ricoprendo i panni ancora stesi ad asciugare o le bancarelle che gli abitanti dovevano aver frettolosamente abbandonato. Via via che si avvicinavano, i dettagli si facevano più nitidi: dei tetti in tegole e paglia rimaneva ben poco, mentre le insegne dei negozi giacevano riverse a terra. L'odore era intenso e nauseabondo: alcuni animali giacevano sparsi per tutta la periferia, feriti a morte dalle schegge acuminate degli ordigni. Degli abitanti, tuttavia, nessuna traccia: erano fuggiti, per lo più, abbandonando un paese ormai fantasma. Solo qualche corpo straziato faceva capolino tra gli usci delle case: poveri sfortunati, che non erano riusciti a mettersi in salvo.
Un cartello ammuffito, posto ai margini dell'unica strada che attraversava il paese, recava una sola scritta: Lumeau.

Si incamminarono, attenti a non calpestare calcinacci e tenendosi lontani dagli edifici pericolanti. I loro inseguitori dovevano aver definitivamente rinunciato alla fuga: le grida non si sentivano e nemmeno i passi. Il rombo di un motore si sentiva distante e sembrava allontanarsi sempre di più.

«Stanno andando a cercare rinforzi» sussurrò Erwin, rompendo quegli attimi di silenzio forzato «Dobbiamo trovare un mezzo di trasporto al più presto e scappare»

«Pensi che verranno qui?»

«Non appena avranno avvisato Weilman torneranno.»

«Potremmo proseguire a piedi»

«Impiegheremmo troppo tempo e... non so dove siamo» vide il biondo indicare un punto oltre le loro spalle «Penso che il sidecar sia laggiù, ma non ne sono sicuro. Ho perso l'orientamento» i campi si susseguivano tutti uguali, nella loro irritante monotonia. Non offrivano neppure un punto di riferimento, nulla che potessero usare per ritrovare la strada.

Si mossero in silenzio l'uno accanto all'altro, le mani affondate nelle tasche e i visi chini: possibile che la loro fuga fosse già al capolinea? Lumeau era chiaramente un paesino fantasma, ormai: a parte i morti accantonati lungo le vie, nessun era rimasto. Qualche gatto dimenticato si aggirava tra i rifiuti, cercando qualcosa da sgranocchiare. I topi guizzavano agili lungo i rigagnoli di acqua, mentre i polli starnazzavano nelle aie della periferia. Non vi era altro.
Incontrarono qualche veicolo, ma completamente inutilizzabile: cofani danneggiati, ruote distrutte, benzina mancante nei serbatoi. La desolazione di quel posto era sconfortante e non lasciava presagire niente di buono: come se avesse il sapore di una amara trappola in cui erano ingenuamente caduti
.
«Levi» la voce profonda lo distolse dalla carcassa di una vecchia moto, obbligandolo ad affrettare il passo. Erwin era fermo sotto un portico e stava indicando un locale poco distante: il portone completamente scardinato lasciava intravedere l'interno di un'officina.

Si affrettarono, superando le macerie per raggiungere il garage: dentro si notava una serie di armadietti con cacciaviti, martelli, chiavi inglesi e bulloni. Attrezzi che avrebbero potuto utilizzare per far ripartire qualche vecchia carretta. Una tanica di benzina – ancora mezza piena. Un silenzio irreale regnava nell'unica stanza, interrotto soltanto da un indistinto pigolare.

«C'è qualcuno» sussurrò, tirando la manica del Maggiore per richiamarne l'attenzione.

Erwin annuì, allontanandosi di qualche passo:
«Qui est-là?» chiese, ma le sue parole ebbero l'unico effetto di far aumentare quei singhiozzi. Mosse un passo oltre un bidone d'olio arrugginito, guardando attentamente. I suoi occhi, dopo un attimo, colsero la figura timida di una bambina bionda, rannicchiata accanto ad un uomo privo di vita. Non poteva avere più di otto o dieci anni. I lunghi capelli dorati incorniciavano un viso sporco e solcato da abbondanti lacrime. Le iridi azzurre lo stavano fissando con ribrezzo e terrore, mentre le labbra tremavano leggermente. Indossava un vestito bianco, completamente infangato e macchiato di polvere ed unto, simile ad una corta tunica. Nessun segno di calze o scarpe: i piedi minuti erano coperti di sottili graffi e lividi.

Erwin si inginocchiò, tendendole una mano.
« Ne t'inquiète pas. Je ne te ferai pas de mal » Non temere. Non voglio farti del male «Comment tu t'appelles?» come ti chiami?

La bambina scosse il capo, stringendosi maggiormente al corpo ormai freddo.

«Comment tu t'appelles? Moi je m'appelle Erwin et lui il s'appelle Levi. Nous sommes des anglais» mentì, tornando a sfoggiare un sorriso rassicurante « On ne te fera pas de mal. On est des gens bien» Non ti faremo del male. Siamo brava gente.

«Christa» una voce timida ed insicura spezzò quel momento, mentre una manina si tendeva a stringere le sue dita robuste «Je suis la fille du mécanicien. Papa est...» Sono la figlia del meccanico. Un singhiozzo, mentre la bambina si gettava nuovamente sul corpo esanime.

«Et ta maman

«Elle est morte à ma naissance» Morta dandomi alla luce.

«Tu es toute seule?» sei sola?

«Oui, il n'y a plus personne ici» sì. Non è rimasto nessun altro qui.

«Peut-on utiliser les outils de ton papa pour réparer une voiture? Nous devons aller à Limoges » possiamo usare gli attrezzi di tuo papà per riparare una macchina? Dobbiamo andare a Limoges.

«Oui»


***


Levi si sporse sul cofano aperto della vecchia Renault. Era singolare trovare un'automobile del genere in un paesino come quello: pareva in buone condizioni, malgrado il serbatoio fosse completamente a secco. Alcuni fusibili erano saltati ed il tedesco stava cercando di bypassarli, per far ripartire il motore.

«Tieni» disse, allungando al compagno uno straccio per ripulirsi le mani dal grasso e dall'olio fuoriuscito «Credi davvero di poterla aggiustare?»

«Sì. Non è messa male. Ci vuole solo un po' di pazienza e con qualche miglioria sarà pronta a ripartire. La benzina dell'officina non ci consentirà di fare molti chilometri, ma almeno ci sposteremo da qui.»

«Vuoi una mano?»

«Se non hai del chewingum adatto ad aggiustare lo specchietto retrovisore, non credo» le labbra carnose si piegarono in un accenno sarcastico.

«Ah-ah, spiritoso...» incrociò le braccia al petto, fissando la porta dell'officina. Christa si era seduta su un cumulo di cassette e stava giocando con un paio di pezzi di stoffa, annodati per assomigliare a delle bambole. Le avevano costruite con gli strofinacci recuperati nel garage, ma alla piccola erano comunque piaciute. Probabilmente quella ragazzina non aveva mai avuto una vera bambola; si era accontentata, quindi, quando aveva scorto i due stracci arrotolati su loro stessi. Aveva sorriso e li aveva ringraziati. Era bastato quel gesto per guadagnare un poco della sua fiducia, per allontanarla dal cadavere del padre e per tornare a farle assaporare l'aria aperta. «Erwin... non possiamo lasciarla qui»

«Lo so, ma...»

«Ma?»

«Non possiamo neppure portarcela appresso»

«Perché no?»

«Svariati motivi. Ci rallenterebbe ulteriormente e con Weilman sulle nostre tracce sarebbe troppo rischioso portarla con noi. Hai idea di cosa le farebbe, se ci catturasse? Io sì, purtroppo.» colse un sospiro, mentre la chiave inglese tornava ad avvitare un bullone «Dovremo lasciarla in un paese vicino, a qualcuno che possa prendersene cura.»

«Mi dispiace»

«Anche a me. Non affezionartici troppo»

Il Maggiore aveva ragione: che senso aveva sballottare una bambina in una fuga rocambolesca per il territorio occupato? Avevano già i loro problemi, senza doversi sobbarcare anche un'orfanella francese, che avrebbe involontariamente rubato tempo prezioso. E poi... una bambina così piccola aveva delle esigenze: mangiare con regolarità, ripararsi in una casa, avere dei vestiti puliti e la possibilità di lavarsi. Non potevano garantirle nulla del genere: non potevano improvvisarsi genitori, men che meno in quelle condizioni. Due adulti sapevano resistere al freddo ed ai morsi della fame, ma... una bambina? Lei non ce l'avrebbe fatta.

Forse portarla a Vichy si sarebbe rivelato solo un enorme errore; era meglio, tuttavia, lasciarla in suolo nemico? Non avrebbe saputo rispondere. Da un lato la certezza di un tetto sulla testa, di un letto e abiti nuovo, dall'altra la fuga dal nazismo e la libertà da guadagnare a caro prezzo. Come poteva capire cosa fosse meglio per Christa? Lasciarla ad una famiglia adottiva sarebbe stato più semplice, ma come sarebbe cresciuta in una Francia occupata e controllata? Nella repubblica del sud forse sarebbe stata meglio: senza le costrizioni dei tedeschi, senza l'incubo dei bombardamenti, senza il rumore dei cingolati lungo la strada; al riparo dalla guerra e dalle sue privazioni.
D'altro canto, viaggiare con loro era pericoloso: se Weilman li avesse arrestati, cosa sarebbe successo alla minuta e spaventata Christa? Forse sarebbe riuscita a fuggire oppure sarebbe morta; oppure l'avrebbero usata per...
Scosse il capo. Non voleva nemmeno pensarci. Portare via la ragazzina da Lumeau era la scelta giusta, ma dovevano comunque abbandonarla alla prima occasione e trovare qualcuno che si occupasse di lei.

«Ti ci vorrà ancora molto?» domandò, infine, desideroso di cambiare argomento. In fondo, prima ripartivano e meglio era per tutti.

«Temo di si. Non sono un meccanico. Quel poco che conosco l'ho appreso qui e là, leggendo manuali e confrontandomi col genio militare. Sto andando per tentativi, ecco... credo di essere sulla giusta strada, ma non so dirti quanto tempo impiegherò»

«Prima di sera?»

«Poco probabile­» una occhiata al cielo che si stava rapidamente annuvolando «Sembra stia per mettersi a piovere»

«Prima di domani?»

«Sicuro. Conto di ripartire questa notte, col favore del buio. Non disdegnerei un bell'acquazzone, a questo punto: il rumore della pioggia coprirà quello del motore e la visibilità ridotta rallenterà ulteriormente Weilman ed i suoi tirapiedi.»

«Pensi che potrei schiacciare un pisolino? Ho visto che ci sono delle stanze sopra l'officina. Potrei mettermi lì»

«Sì, anzi... credo sia una buona idea. Così potrai darmi il cambio al volante, questa notte. Sempre che te la senta di guidare...»

«Non aspetto altro!» finalmente non sarebbe stato più costretto a viaggiare sul sedile del passeggero. Finalmente avrebbe impugnato il volante, piazzato il piede sull'acceleratore, sgommato e spedito quella carcassa di Renault al massimo delle sue possibilità. Erwin si sarebbe reso conto di che fantastico pilota era e... non lo avrebbe mai più costretto a viaggiare in quei ridicoli carrozzini da sidecar. Anzi, probabilmente gli avrebbe spontaneamente ceduto il posto di comando. Sorride appena a quell'idea: sarebbero sfrecciati sulle stradine sconnesse della campagna d'Orleans, guizzando veloci sino a Limoges, senza intoppi.

«Nello zaino ci sono delle coperte. Se riesci, fai dormire Christa con te»

«Non parlo francese, lo sai.»

«Ti capirà a gesti. Mima un cuscino, no?» le mani del tedesco si infilarono unite sotto una guancia. Lo vide chinare il capo sul dorso della mancina e rialzarlo poco dopo coperto di striature nerastre.

«Ti sei macchiato la faccia» disse appena, allungando un indice per sfregare via quei segni scuri.

C'era qualcosa di profondamente sbagliato in quello sporco: come se il grasso scuro avesse appena deturpato qualcosa di eccezionalmente bello, una sorta di opera d'arte che solo lui aveva la fortuna di ammirare. Lasciò lo sguardo indugiare sui lineamenti forti, sulla mascella scolpita che sfuggiva poi in un mento aggraziato. Le linee risalivano a contornare le labbra ed a delimitare il profilo sicuro del naso, sino a perdersi negli occhi chiari, accompagnati delle scomposte ciocche bionde.
Ritrasse la mano, distogliendo frettolosamente lo sguardo: che diamine gli passava per la testa? Non era quello il momento di indugiare, men che meno su quel viso famigliare che ormai conosceva quasi a memoria. C'erano cose più importanti che pulire l'unto dalle guance di Erwin.

«Emh...» sussurrò, cercando di riprendere il filo del proprio discorso «Ho tolto la lettera di Farlan dallo zaino» cambiare nuovamente argomento poteva rivelarsi la soluzione vincente. Rialzò le iridi grigie, sforzandosi di mantenere un tono sicuro, determinato «Dopo quello che è successo, ho pensato fosse più sicuro tenerla addosso. L'ho quasi persa, quando si è ribaltato il sidecar. Se tu non avessi recuperato lo zaino...»

«Credo sia la scelta migliore. Tienila in una tasca interna, così non rischierai di smarrirla.»

«Sì, certo... giusto» sussurrò, facendo un rapido dietro front «Allora, vado a... dormire. Svegliami quando avrai finito»

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