31. Preda e cacciatore

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Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.


Accadde tutto troppo in fretta perché potesse rendersene conto.

Uno sparo spaccò la quiete, preceduto da un grido furioso. Il  proiettile fendette l'aria, per poi infrangersi nel muro oltre le proprie spalle. Gli occhi si sforzarono di seguire la figura bassa che, dall'uscio, si era lanciata di peso sul capitano. Vide questi incespicare di lato, voltarsi e lottare contro il suo assalitore.

«Levi...» sussurrò Erwin, mentre la scena si consumava davanti al suo sguardo.


***


Levi oltrepassò di getto la soglia, scattando contro Weilman. Le membra stanche reagirono immediatamente alla scarica dell'adrenalina. Colse i muscoli tendersi, le braccia irrigidirsi e le labbra muoversi istintivamente in un ringhio incontrollato, più simile a quello di una bestia che di una persona.

«Bastardo!»

Muoviti. Continua a muoverti.

Lo spazio si annullò completamente: era come se la vecchia stanza da bagno non esistesse più; vi erano soltanto loro due, sospesi nel vuoto del tempo, troppo dilatato per poter essere contato.

I secondi divennero lunghi come minuti oppure ore; ogni gesto rallentato, ogni respiro trattenuto. Non vi era nulla all'infuori di sé, di Herr Kapitan e del Maggiore, ancora accovacciato a terra. Lo avrebbe protetto ad ogni costo. Era giunto il momento di riscattarsi, di ripagare gli innumerevoli e silenziosi debiti che aveva accumulato in pochi giorni. Non avrebbe permesso a Weilman di distruggerli, non ad un passo dalla loro meta. Quella faccenda andava chiusa una volta per tutte.

Le dita sottili incontrarono la stoffa della divisa nera, serrandosi immediatamente. Le braccia flesse si distesero di scatto, spingendo l'alta figura con l'aiuto delle gambe. I piedi si puntarono al suolo per contrastare l'impatto iniziale, prima di macinare velocemente metri. La sua mente non era in grado di elaborare nessun piano che non fosse spintonare il suo avversario verso la vicina finestra. Non badò alle urla di quest'ultimo. Continuò anche quando il rumore di un secondo colpo squarciò nuovamente l'aria. Un paio di passi ancora e...

Il tintinnare dei vetri infranti lo riportò bruscamente alla realtà. Levi sgranò gli occhi, ritrovandosi a cadere verso la vicina tettoia. La schiena impattò contro le tegole convesse, mozzandogli il respiro, mentre una miriade di schegge luccicanti cadeva sul suo viso, sul petto e sulle gambe, tagliando la pelle ed i vestiti. Weliman giaceva accanto a lui, un ghigno distorto sulle labbra e la pistola ancora fumante.

Chiuse i palmi, cercando di strattonare il corpo del capitano, ma senza successo. Un altro sparo gli tagliò le orecchie, troppo vicino per poter essere ignorato. L'ilarità del tedesco aumentò di intensità.

Una morsa gli serrò lo stomaco, mentre un sordo bruciare si diffondeva dal centro dell'addome, irradiandosi verso le cosce, i fianchi ed il petto. Abbassò lo sguardo, scorgendo una macchia rossa allargarsi sulla camicia, bagnando le falde del gilet scomposto. Poco sopra, un secondo foro, dove il sangue zampillava allegro. Percepì gli occhi velarsi ed un gorgogliare sordo sul fondo della gola. Sollevò una mano, poggiandola sul proprio ventre e ritraendola completamente imbrattata. Faticò a distendere le dita, come se le articolazioni si stessero bloccando, incapaci di reagire al dolore che correva attraverso il suo corpo. Annaspò con le braccia, alla ricerca di un appiglio. Doveva rimettersi in piedi e continuare a lottare. Doveva proteggere Erwin, distruggere Weilman una volta per tutte e raggiungere Limoges. Doveva portare la lettera di Farlan e vedere Parigi.

Aveva ancora delle faccende in sospeso, troppe perché Herr Kapitan le cancellasse con il semplice premere del grilletto.

Tentò di rialzarsi, ma le ginocchia cedettero immediatamente. Rovinò sulla tettoia, sbattendo il viso sui coppi ruvidi. Ansimò, lottando per ricacciare i conati. Un rivolo scivolò dalle sue labbra, tingendo il coccio sottostante di un colore rosato. Il sangue si mescolò velocemente alla saliva, obbligandolo a tossire e sputare.

Non può finire così.

Un sussurro nella sua testa. Non era tempo di arrendersi. Non ancora.

Strinse i pugni, flettendo le braccia ed ignorando il bruciore all'addome. Piegò le ginocchia, puntellandosi sulla tettoia pericolante. Sollevò il viso, incrociando un'ultima volta lo sguardo porcino di Weilman; vi lesse scherno. Non pietà, non compassione, non odio; soltanto una bieca ironia.

Scorse il tacco dello stivale poggiarsi con forza sulle sue dita. Affondò i denti nel labbro inferiore, impedendosi di urlare, resistendo sino allo scricchiolare dell'indice e del medio.

Le braccia si piegarono nuovamente, incapaci di sostenere il peso ed il dolore. Crollò quando un calcio raggiunse il suo stomaco. Sussultò, raggomitolandosi su sé stesso, involontariamente. Avvicinò le ginocchia al petto, cercando di proteggersi, mentre una seconda pedata lo raggiungeva.
Scivolò lungo le tegole, incapace di reggersi e di trovare un appiglio. Le mani si mossero alla disperata ricerca, ritrovandosi a stringere solo aria. Un ultimo colpo lo spinse sull'orlo della tettoia.

«Ti piace volare, aviatore?» il gracchiare di Weilman lo costrinse a rialzare lo sguardo, nonostante il velo umido delle lacrime «Allora spiega le tue ali. Ti serviranno»

Finiva così? Con lo stomaco forato, le dita rotte ed il respiro spezzato. Con gli occhi umidi e le labbra bagnate da un tossire scarlatto.

Un ultimo calcio lo gettò oltre il bordo. Percepì il vuoto avvolgergli le spalle, l'aria fresca sferzargli i fianchi ed arruffargli i capelli. Osservò Weilman, in piedi sui coppi, allontanarsi sempre di più, sino a diventare un omino insignificante stagliato contro il cielo mattutino.

Contò silenziosamente. Uno, due, tre secondi e qualcosa di più. Il buio dello scantinato lo accolse. La schiena impattò contro le macerie sul fondo del cratere. Mattonelle sconnesse, rovi e cocci di bottiglia lo abbracciarono, strappandogli un secco sospiro. Le iridi si incollarono alle nubi grigie, un'ultima volta.
Il tempo non prometteva bene. La pioggia sarebbe giunta prima di sera.


***


Erwin assistette, impotente.

Vide Levi gettarsi addosso a Weilman e spingerlo sino oltre la polverosa finestra. Percepì due spari rimbombare nella sala e qualche parola appena sussurrata, troppo bassa per poter essere raccolta. I suoni si fecero ovattati e distanti, mentre le immagini si mescolavano davanti ai suoi occhi: il pilota sanguinante che cercava di rialzarsi; Weilman che lo colpiva ripetutamente, prima di spingerlo oltre la tettoia. Gli attimi interminabili di una caduta ed un tonfo lontano, prima del silenzio.

«Levi» ripeté meccanicamente, mentre il suo corpo si decideva infine a reagire.

Scattò in piedi, ignorando le fitte alla gamba. L'adrenalina corse lungo le sue membra, annebbiandogli la ragione ed offuscando il dolore. Lo obbligò a muoversi, a ciondolare verso il revolver abbandonato sul pavimento. Lo raccolse, stringendolo saldamente nel pugno. Gli occhi percorsero la stanza alla ricerca di un bersaglio. Incrociarono Weilman, ancora intento ad oltrepassare il bordo della finestra spaccata.

L'indice scivolò sul grilletto, mentre nella sua testa risuonava un semplice ammonimento:
Non ancora.

Doveva aspettare. La mira doveva essere precisa, infallibile. Non poteva tradirsi, né lasciare che Weilman cadesse. Non sarebbe morto nello scantinato, quel bastardo; non sarebbe morto accanto a Levi. Sarebbe crepato lì, sulle fredde e sporche piastrelle di una stanza da bagno. I topi avrebbero banchettato sul suo cadavere, spolpandolo sino alle ossa. Le mosche avrebbero fatto il resto.

Stese il braccio destro davanti a sé, deglutendo a vuoto per ingoiare il protestare della ferita. Non avrebbe ceduto. Non sarebbe caduto in ginocchio davanti al suo nemico. Mai più. Digrignò i denti e la mano tremò per un istante, quasi preda dell'indecisione.

«Vuoi spararmi, maggiore?»

La voce di Weilman lo raggiunse. Il capitano impugnava ancora la Mauser, ma la teneva distesa lungo il fianco.

«Sì» la risposta gli sfuggì dalle labbra, lontana ed affaticata.

«Non lo farai, lo sai?»

«Chi te lo ha detto? La tua coscienza nera per caso?»

«Lo avresti già fatto. Hai avuto... mille occasioni per uccidermi, ma non lo hai fatto. Ti sei limitato a scappare come una preda impaurita.»

«Ti sbagli. Non sono una preda.» l'indice premette a fondo sul grilletto «Sono il cacciatore.»

Il proiettile scattò dalla Webley, saettando nell'aria. Raggiunse il petto di Herr Kapitan, conficcandosi nella sua carne. Poco dopo, un secondo ed un terzo colpo spaccarono il cuore ed i polmoni. Il sangue prese a zampillare dalla divisa scura, bagnando il pavimento dove il corpo era crollato.

Erwin si avvicinò con un paio di passi incerti, incapace di staccare gli occhi dai fori rossastri o di spostare il dito dal grilletto. Lo schiacciò ancora due volte. Spiò il petto sussultare e poi fermarsi definitivamente.

Gli occhi sottili del nazista fissavano il soffitto. La bocca era spalancata in una espressione stupita. Le braccia giacevano scomposte a lato del torace crivellato. I capelli unticci si erano incollati alla polvere del pavimento, mentre la Mauser era scivolata a terra.

Il maggiore non si piegò neppure per controllare il battito. Si accontentò di osservare a lungo l'immobilità della morte. Chinò soltanto il capo, quasi a salutare una vecchia amica, che ancora una volta passava ad insanguinare le sue mani. Non si sarebbe mai liberato di lei, ormai lo sapeva. Giusta o sbagliata, quella di Weilman era comunque una fine. Un sipario spesso che calava su un uomo bieco, corrotto, avido... ma pur sempre un uomo.

C'è ancora una vita che devo prendere. Poi ti lascerò in pace.

Quella promessa risuonò nel silenzio della sua mente. Annuì piano, piegando le labbra in un amaro sorriso.
Volse le spalle al cadavere, zoppicando verso le vicine scale.

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