3. Herr Major

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4. Herr Major


Marzo 1942 – Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.


Erwin scese le scale, passando dal refettorio al cortile interno. La mattinata si prospettava lunga ed intensa. Un contingente aveva catturato una decina di ribelli francesi, ora allineati sotto al pallido sole primaverile e stretti tra due camion cingolati. Weilman aveva fatto schierare i prigionieri in un'unica fila, circondandoli da soldati ben armati. Nessuno di quei timidi francesi avrebbe osato ribellarsi o tentare la fuga, resa comunque impossibile dalle corde che li legavano insieme.

«Herr Major»

Il suo arrivo fu accolto da un battere di tacchi e da saluti militari. Era dannatamente inquadrato, l'esercito tedesco! Forse era per questo che gli piaceva: tutto aveva un posto, una collocazione. Non c'era caos, solo una ferrea disciplina: i soldati sapevano sempre cosa, come, perché svolgere compiti e missioni. Non c'erano alzate di testa, diserzioni o ribellioni. Era ordinato.

«Riposo» snocciolò soltanto, raggiungendo il capitano Weilman, che già spulciava un lungo elenco. «Herr Kapitan, buongiorno. Aggiornamenti?» lo chiese per semplice cortesia. Naturalmente, lo avevano già informato della retata notturna; tuttavia, quello poteva essere un buon modo per tenere tranquillo Weilman, per farlo sentire gratificato e, possibilmente, dimenticare lo screzio del giorno precedente: sapeva perfettamente che il sottoposto non gli aveva perdonato l'intromissione nell'interrogatorio degli inglesi. Non che gli importasse più di tanto. Dopotutto, era lui a ricoprire il grado più elevato nella gerarchia militare. Era tempo che Weilman si rassegnasse a svolgere soltanto i compiti di sua competenza, senza azzardarsi a contestare i suoi ordini.

«Il drappello di Fitcherman ha catturato questi ribelli, in una retata. Si nascondevano in una fattoria abbandonata. Naturalmente, li ha fatti perquisire, ma non ha trovato nulla di interessante. Non sono importanti, Herr Major: nessuno di loro è un ufficiale della resistenza. Sono soltanto stupidi partigiani, convinti di poter salvare quella spazzatura che è ormai la Francia. Credo non meritino nemmeno il nostro tempo»

«Nessuna informazione, quindi?» Erwin era un po' deluso. In genere, i covi degli insorti nascondevano sempre qualcosa di interessante. Questi, invece, parevano soltanto un gruppo di sbandati: le barbe incolte, le mani callose ed i volti già abbronzati. Senza dubbio, non erano dei veri combattenti, ma soltanto contadini armati di fucile e sostenitori delle idee partigiane. Semplicemente, una grandissima seccatura. Si avvicinò ad un giovane: non poteva avere più di diciotto anni. Il viso imberbe era rivolto al suolo, gli occhi bassi e le spalle tremanti. «Hai paura?» chiese, in uno stretto francese.

Non ottenne risposta.

«Te lo ripeto. Hai paura?» pochi tedeschi comprendevano il francese, ma non si preoccupò minimamente di tradurre le proprie parole. Meno Weilman sapeva, meglio era.

«No!»

«Non voglio farti del male» si rendeva conto di quanto poco rassicurante potesse essere quel discorso, specie se fatto da un maggiore nazista «Soltanto sapere se avevate qualcosa quando vi hanno perquisito: mappe, rapporti, resoconti sulle vostre attività» abbassò ulteriormente la voce «Devo saperlo. Non mi fido del mio sottoposto» pregò che nessun altro avesse sentito quella confessione: in genere, era ben voluto dai propri uomini, ma... le spie si nascondevano ovunque. Una parola fuori luogo, qualche Marco dispensato al momento giusto e Weilman lo avrebbe scoperto: da lì ad un richiamo ufficiale dal Comando Centrale, il passo era breve.

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