Capitolo 3

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I raggi del sole filtravano attraverso le tende della sua stanza da letto, annunciando l'impietoso sorgere di una nuova alba. Ancora una volta, era giunta l'ora di uscire da quelle coperte, per scontare, con una nuova giornata di delusioni, un peccato originale che non si ricordava di aver commesso, ma di cui ogni giorno il conto diventava sempre più salato. Aperti gli occhi, subito li richiuse; si tirò il lenzuolo fin sopra la punta del naso, crogiolandosi nel tepore del letto, senza riuscire a capire quale contributo il mondo lì fuori si aspettasse da lui. Non sentiva rumori in casa: suo padre era tornato ieri notte tardi dal turno settimanale alla Badoni e stava ancora dormendo, sua madre probabilmente era già in galleria a preparare la personale dell'ennesimo imbrattatele provinciale, cercando il modo di lanciarlo come se fosse un nuovo De Chirico. 

All'improvviso, sentì il rumore di una porta che si apriva

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All'improvviso, sentì il rumore di una porta che si apriva. Scattò in piedi solo per paura che potesse essere la donna delle pulizie: se fosse entrata all'improvviso per sistemare la sua stanza e l'avesse trovato ancora a letto, prima di sera sarebbe sicuramente corsa da sua madre a riferirlo. Quella donna lo odiava. Scivolò a malincuore fuori dalle lenzuola di lino, appoggiando i piedi nudi sulle fredde piastrelle e rabbrividì. Quasi inciampò sul libro degli "Inni alla Notte" dimenticato sul tappeto, mentre tirava il cordone per far scorrere le tende, lasciando che il sole illuminasse le partiture di Strauss incorniciate alla parete. Si gettò sfinito sulla poltroncina di vimini accanto alla scrivania colma di libri e aguzzò gli occhi per leggere il quadrante del pendolo in corridoio; gli sembrò che fossero già le dieci passate e sbadigliò: avessero lasciato a lui la scelta, se ne sarebbe tornato subito a letto. Ieri notte era andato a dormire tardi, quasi alle tre, perché si era perso nella lettura di un inno di Novalis; l'ingegnere tedesco ormai era diventato il suo poeta preferito, nonostante i suoi genitori considerassero il preromanticismo solo un'anticaglia superata, buona per fannulloni che sprecavano le giornate sognando a occhi aperti invece di partecipare laboriosamente all'edificazione del progresso umano. Ancora in pigiama, Yael scese le scale, scrutando guardingo che la signora delle pulizie non fosse in agguato in qualche angolo del salone; per fortuna, dopo un'attenta ispezione visiva, ebbe la conferma che non era ancora arrivata e scese sollevato nella sala da pranzo deserta. Sgattaiolò in cucina, cercando degli avanzi di torta o biscotti per fare colazione. Trovò una fetta di ciambella ancora morbida e la divorò, poi trascinò pigramente i piedi scalzi fino alla stanza del pianoforte, riempiendo i tappeti del salone di briciole, come simpatico omaggio per la sua nemica, che avrebbe poi dovuto faticare a ramazzare la stanza. Entrato nel suo regno, il vecchio studio di suo padre svuotato di tutte le carte per fare posto al maestoso pianoforte a coda, Yael spalancò le persiane per cambiare l'aria che sapeva di stantio e dare il benvenuto alla luce del giorno. Si sedette alla tastiera e appoggiò al leggio lo spartito del "Clavicembalo ben temperato" di Bach. Il suo maestro di musica, una volta, per spiegargli l'importanza che quella raccolta di esercizi aveva nella vita di un musicista, gli aveva scherzosamente raccontato che un pianista poteva avere ogni sorta di vizio nella vita: prostitute, alcol, fumo, gioco d'azzardo; l'importante era che, almeno una volta il giorno, prima del tramontare del sole, si fosse allenato sul manuale di Bach. Per il suo vecchio maestro, quell'antologia rappresentava una sorta di sacramento della riconciliazione, una garanzia per il musicista che il genio dell'arte non avrebbe mai spezzato la comunione con lui, qualsiasi fosse stato il peccato con cui avesse infangato la propria anima. Fedele a quel comandamento, come ogni giorno il giovane studente sganciò l'asticella del metronomo e, seguendone il battito, iniziò a macinare scale. Questa era una sorta di visione ascetica della musica in cui il suo maestro credeva fermamente, convinzione che andava a braccetto con l'etica dell'arte di sua madre, che aveva sempre ammirato maggiormente un Alfieri legato alla sedia a studiare Dante, piuttosto che un Modigliani a zonzo per taverne in cerca d'ispirazione. Mentre le sue dita martellavano sui tasti, Yael sentì un odore spiacevole salirgli alle narici e, con rammarico, dovette dedurre che proveniva proprio dal suo corpo. Forse avrebbe dovuto lavarsi, pensò, prima di immergersi in quella sacra disciplina. Quell'imbarazzo nei confronti dello stato della propria igiene personale gli fece venire in mente che, prima di pranzo, avrebbe dovuto per forza darsi una ripulita: questo pomeriggio, infatti, sarebbe venuta Mara a ripassare solfeggio e non poteva rischiare di fare brutta figura con lei. Lei e Yael studiavano pianoforte insieme per sostenere l'esame del primo anno al conservatorio, anche se Mara non si stava impegnando granché nell'apprendimento: la sua amica, infatti, sembrava preferire, ai tediosi esercizi alla tastiera, la compagnia di Stefano e degli altri teppisti, con cui sprecava i pomeriggi bighellonando e oziando all'ombra degli alberi del parco. L'ebreo non riusciva comunque a fargliene una colpa: sapeva che, come per altri suoi coetanei, anche per Mara, il desiderio di suonare il pianoforte era stato più dei genitori che suo; senza un figlio sommo interprete di qualche strumento classico, ormai sembrava che non si potesse più essere accettati nella cerchia degli ebrei di buona famiglia. Dal canto suo, il loro maestro era consapevole che alla maggior parte dei suoi allievi non importasse nulla di Beethoven e Mozart, ma anche lui doveva mangiare, perciò faceva del suo meglio per portarsi dietro quegli svogliati figli di papà il più a lungo possibile, prima di dover dichiarare la resa e perderne il succoso assegno mensile. L'esagerata pigrizia di Mara, però, era diventata troppo anche per il tollerante pragmatismo del maestro e, la scorsa settimana, la svogliata allieva si era dovuta sorbire un severo rimprovero, dopo di che il maestro l'aveva obbligata ad affiancarsi a un altro studente, nella speranza di stimolarla così a recuperare il terreno perduto. Sapendo che Mara e Yael erano amici d'infanzia, il maestro aveva chiesto proprio a lui di sopportare per qualche settimana il peso di dare delle ripetizioni a quella fannullona. Quasi imbarazzato per aver dovuto affibbiare un fastidio del genere al suo migliore allievo, il maestro non avrebbe mai immaginato che Yael, di fronte a quella richiesta, si fosse dovuto trattenere a fatica per non mettersi a ballare dalla gioia. Le dita dell'abile pianista continuavano a scolpire accordi sulla tastiera senza errori, mentre lottava per non distrarsi dietro i sogni a occhi aperti vagamente a sfondo sessuale che ogni tanto gli facevano capolino nella testa. La mano destra si staccò dai tasti per una frazione di secondo e girò la pagina dello spartito, tornando poi incollata alla tastiera senza perdere neppure una nota, con quella sincronizzazione perfetta che si sviluppava solo dopo anni di pomeriggi trascorsi in frustranti esercizi, invece di uscire a giocare al pallone con gli amici o andarsene a zonzo per i fatti propri. Sbuffando, Yael arrivò all'ultimo rigo di quella tortura: dopo l'accordo finale, staccò con ripulsione le dita dal pianoforte e tirò un lungo sospiro. Era quasi mezzogiorno. Ai battiti di metronomo che riusciva a sostenere, impiegava quasi tre ore per arrivare in fondo al primo spartito di esercizi. Non poteva che dare ragione al suo maestro: dopo quella massacrante disciplina, ora nessuno avrebbe potuto rimproverarlo se avesse deciso di concedersi qualche piccola coccola. Prima di darsi ai bagordi, però, Yale si rassegnò, a malincuore, a doversi lavare. Trascinatosi nella ritirata, s'immerse nella tinozza e si sciacquò genitali e ascelle, dandosi una veloce passata di spugna sulla pelle. Dopo essersi asciugato, indossò gli stessi vestiti, chiedendosi dubbioso se non fosse il caso di cambiare almeno le mutande con un paio pulito. Poi, però, si risolse a tenere quelle di ieri: d'accordo che era desideroso di fare bella figura con Mara, ma pensò che non ci fosse bisogno di esagerare. La pendola aveva già scoccato la mezza e la luce del sole inondava la casa tornata silenziosa. Nemmeno la mitragliatrice di quelle scale musicali era riuscita a svegliare suo padre che, stravolto come il solito dalla dura settimana lavorativa, si sarebbe alzato dal letto a malapena per l'ora di cena: da qualche mese, in linea di produzione avevano enormi carichi di lavoro, anche se non lo aveva mai sentito sbilanciarsi a raccontare i dettagli di quelle nuove commesse. Sua madre non sarebbe tornata tanto presto perché aveva un appuntamento a pranzo con un colonnello appassionato d'arte, in cerca di croste che celassero in nuce il magico seme dell'avanguardia. A Yael era sempre piaciuto disegnare, ma sua madre aveva insistito per dirottare la sua educazione artistica sulla musica, sostenendo che, a causa di tutte le porcherie moderne, l'arte figurativa si era ormai ridotta a un fenomeno da baraccone il cui unico scopo era compiacere la vanità dei parvenu del loro secolo. Dopo aver sostenuto la mortificazione del "Clavicembalo ben temperato" ed essersi addirittura lavato, il ragazzo si sentì in diritto di concedersi qualsiasi tipo di trasgressione: mise sul fuoco la teglia con gli avanzi delle polpette agli spinaci di ieri e salì in camera a recuperare il libro che stanotte non era riuscito a terminare. Versò le polpette fumanti nel piatto di ceramica, sopra le decorazioni con boccioli e foglioline dipinte a mano e, con l'odore delle spezie che gli solleticava le narici, iniziò a divorarle a grandi forchettate, mentre terminava per l'ennesima volta la lettura del sesto "Inno alla notte" di Novalis. 

I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora