Capitolo 19

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Yael rabbrividì. Era rimasto a lungo fuori casa, passeggiando per l'aia cercando di riordinare le idee. Ora che il sole era tramontato dietro le montagne, però, si sentiva intirizzito e, intimorito dal calare della notte, rientrò nella fattoria per scaldarsi un po' le mani davanti al fuoco. Entrò nella grande sala al piano terra, che era immersa nella penombra, mentre le fiamme morenti nel camino proiettavano ombre incerte sul muro di pietra; attorno al tavolo, il capo dei partigiani giocava a scopone con uno dei suoi fedelissimi. Yael si lasciò cadere su un divano così sporco e sgualcito su cui, se non fosse stato per la spossatezza che provava dopo la giornata appena trascorsa, non si sarebbe appoggiato neanche morto. Accorgendosi del suo arrivo, il capo dei partigiani alzò gli occhi dalla sua mano di carte: «Un artista ci onora con la sua presenza», commentò sarcastico, «cercheremo di alzare il tono del discorso a un livello culturale più adeguato» dopo di che smorzò le parole che aveva appena pronunciato con un forte rutto. L'altro partigiano rise. «Facciamo la mano con il morto?» chiese il soldato, calando una regina di ori sul tavolo. «Sai giocare, artista?» gli domandò il capo dei partigiani. «Sì,» rispose il ragazzo, pensando con una fitta di malinconia a tutte le serate spensierate trascorse al Bar Impero con Mara e i suoi amici. «Ma giocare in tre fa schifo» rispose il capo dei partigiani «perché, invece, non ci suoni qualcosa?», gli propose. Yael credette di non aver capito bene. «Suonare?» chiese sorpreso il giovane ebreo, al che l'altro partigiano gli indicò un vecchio pianoforte nascosto nella penombra. 

La luce del camino era così fioca che il giovane pianista non l'aveva visto quando era entrato nella sala in pietra

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La luce del camino era così fioca che il giovane pianista non l'aveva visto quando era entrato nella sala in pietra. «Posso provarlo?» chiese Yael. Il militare fece un cenno affermativo col capo e scoppiò a ridere, calando una scopa d'asso. «Eh, ma che culo» esclamò contrariato il capo dei partigiani, versandosi un altro dito di grappa «con te non ci gioco più.» Il giovane musicista si sedette davanti al pianoforte e premette qualche tasto per rendersi conto della qualità dell'accordatura. Yael accennò a suonare il trillo iniziale della serenata che aveva composto per Mara, ma invece di sentire della musica gli sembrò che dei gatti in calore si fossero messi a miagolare, La felicità di poter appoggiare di nuovo le dita sui tasti d'avorio, però, era così intensa che quei cigolii sgraziati risuonarono alle sue orecchie come le perle cristalline di uno Steinway. Yael attaccò l'esecuzione della ballata che aveva composto in quelle felici notti d'estate per la ragazza che amava più della sua vita e i partigiani interruppero il loro gioco, affascinati e allo stesso tempo sorpresi dalla melodia che usciva dalle mani di quel gracile ragazzino, così dolce che nessuno seppe resistervi. Tornata dalla dispensa, Mara aprì la porta, reggendo un cesto pieno di fichi secchi e noci. Vedendo Yael seduto al pianoforte, sentì quasi venirle meno il respiro e, per alcuni secondi, tra le sue dita scivolò la felice spensieratezza dei giorni passati: quanto si era lamentata di quei pomeriggi trascorsi al pianoforte, quando la felicità sembrava così scontata da venirle quasi a noia. Ora, invece, avrebbe dato tutto per sentire ancora una volta la voce di suo padre che la sgridava perché non si stava impegnando abbastanza con gli esercizi di solfeggio; poi, la musica s'impadronì della sua attenzione e, ascoltando quelle note, riconobbe la melodia che il suo amico aveva composto per lei. Si sentì come risucchiata in un abisso e non riuscì a evitare di fissare Yael che, trasognato, era immerso nell'esecuzione della ballata, come se attorno a lui il mondo con le sue guerre e i suoi dolori avesse cessato di esistere. Timorosa che il suo protettore potesse essersi accorto del suo eccessivo interesse verso il nuovo arrivato, Mara lanciò un'occhiata furtiva nella sua direzione. Il capo dei partigiani se ne accorse, ma si finse assorto nello studio della sua mano di carte. Sollevata, Mara si avvicinò al tavolo, appoggiando il cesto con la frutta secca vicino alla bottiglia di grappa. «Che cosa ci ha portato di buono la nostra solerte contadina?» chiese il capo dei partigiani con il solito fare scherzoso con cui si rivolgeva a Mara quando era in compagnia della sua truppa. «Fichi e noci ai miei valorosi guerrieri» rispose la ragazza, cercando di rispondere a tono, nascondendo il turbamento causatole da quella musica dietro al suo solito modo di fare spensierato. Sentendo il suono della voce di Mara, le mani di Yael si congelarono a mezz'aria. Incuriosito del brusco interrompersi di quella cascata di note, il capo dei partigiani alzò gli occhi dalle carte. Mara pregò che Yael non si girasse e riprendesse a suonare come se niente fosse stato. Come tuffandosi nel fuoco in cui sapeva di morire bruciato, il ragazzo, invece, si voltò verso di lei e la fissò a lungo, quasi faticando a ricordarsi di respirare. Mara abbassò imbarazzata gli occhi e l'altro partigiano lo rimproverò: «Figliolo» gli disse «non ti sembra di essere un po' troppo sfrontato?» Il capo dei partigiani appoggiò sul tavolo le sue carte e si versò dell'altra grappa. «Lasciamolo stare» commentò bonario «deve essere ancora sconvolto dagli avvenimenti della giornata». Yael, tuttavia, capì che non era più nella stanza del pianoforte della vecchia villa, dove aveva sempre potuto fare quello che voleva come un principino viziato, ma si trovava in mezzo a sconosciuti che, al minimo cambio d'umore, potevano anche decidere di averne abbastanza di ritrovarselo in mezzo ai piedi. Abbassò la testa sulla tastiera, intimorito, e riattaccò a suonare dalla battuta su cui si era interrotto. Le sue dita ripresero a scorrere sui tasti d'avorio, come un fiume desideroso di devastare gli argini che sempre più a fatica lo contenevano e Mara si sentì gli occhi umidi di lacrime: appena qualche settimana fa, non aveva dato nessun peso a quella musica, considerandola niente più che un'ingenua romanticheria; adesso, in quella bettola, quelle note gli sembrarono l'unico appiglio di speranza per uscire dall'incomprensibile incubo che aveva inghiottito la sua vita. Quando Yael terminò la sua esecuzione, Mara applaudì, incurante dello sguardo sorpreso del capo dei partigiani. «Non sapevo che fossi un'appassionata di musica» commentò, perplesso. Poi l'afferrò per i capelli e la baciò, rimanendo a lungo attaccato alla sua bocca con il suo alito che puzzava di grappa. Dopo aver marcato il suo territorio, scostò il viso barbuto da quella pelle liscia come seta e si voltò verso Yael: «Sei molto bravo», ammise controvoglia. Ancora distratto da quel bacio così inaspettato, l'ebreo lo guardò ammutolito senza sapere cosa rispondere. «Chissà se sei altrettanto bravo in azione» aggiunse il capo dei partigiani, stringendo una noce nel pugno, fino al secco rumore dello spezzarsi del guscio. Yael vide lo sguardo di Mara accendersi di apprensione. «Già, chissà come te la caveresti» rispose al suo posto il capo dei partigiani «non che nutra grandi attese, dopo aver avuto un assaggio oggi della tua forma fisica» specificò, ridendo, e fece cenno a Mara di versargli dell'altra grappa. «Però, c'è da ammettere che a prima vista non hai l'aspetto di uno di noi: questo potrebbe farci comodo in alcune situazioni.» Il giovane ebreo prese un fico secco. Non gli piacevano molto, ma aveva fame e non era capace di rompere le noci a mani nude. «È vero» commentò l'altro soldato «non sembri proprio un partigiano: saresti un ottimo infiltrato.» Mara cercò con lo sguardo gli occhi di Yael per fargli cenno di tirarsi indietro. Yael non se ne accorse, perché stava contemplando l'ultima fiamma che tremolava nel camino, desiderosa come lui solo di spegnersi nell'oscurità. «Che cosa dovrei fare?» chiese Yael, cercando di assecondare il capo dei partigiani per guadagnarsi la sua simpatia. «Potresti venire in pattuglia con noi domani mattina» rispose il capo dei partigiani «sai usare un fucile?» «No,» rispose il pianista imbarazzato. «Non è un problema» commentò l'altro soldato «è una cosa che s'impara in fretta, quando ti stanno sparando addosso.» Yael si spaventò, sentendo quella risposta così spavalda. «Che cosa dici?» esclamò ridendo il capo dei partigiani «così me lo terrorizzi, non vedi che è solo una mezza sega?» L'ebreo abbassò lo sguardo umiliato. «Tu vieni con noi, non preoccuparti» concluse il capo dei partigiani «domani faremo una ricognizione nei boschi, così ti spiegheremo un po' di cose e ti farai un'idea di com'è qui la vita.» L'altro soldato si alzò in piedi, sbadigliando. Messosi davanti al caminetto, slacciò i pantaloni e orinò sulla debole fiamma, spegnendola del tutto. «Me ne vado a letto» esclamò il partigiano, uscendo dalla porta, un po' barcollante a causa delle grappe bevute. Il capo dei partigiani obbligò Mara ad alzarsi e le appoggiò una mano sui glutei. «Tu puoi dormire qui» disse a Yael, indicandogli il divano «ci dovrebbe essere una coperta, se riesci a trovarla.» Il capo dei partigiani e Mara uscirono, ridendo. Lasciandosi cadere sull'ottomana, il raffinato ebreo cercò di non chiedersi che cosa potessero essere quelle macchie sopra il cuscino su cui aveva appena appoggiato i capelli. Ignorò il senso di nausea e si sforzò di chiudere gli occhi, pregando che l'alba arrivasse in fretta. A causa di tutto quel susseguirsi di emozioni, però, non riuscì a dormire profondamente e iniziò a entrare e uscire da un confuso dormiveglia, fino a che per sfinimento iniziò a sognare. Sdraiato su un prato di montagna, sotto il cielo soleggiato, Yael ammirava l'orizzonte dominato dallo Stelvio, che con il suo maestoso splendore incoronava la cornice delle Alpi Retiche. Seduta sull'erba accanto a lui, Mara gli prese una mano e se la appoggiò sopra un seno. Yael si voltò per baciarla, ma urlò, accorgendosi che la sua mano grondava sangue. Mara aveva uno squarcio all'altezza del cuore e ansimava come se non riuscisse più a respirare. Madido di sudore, Yael si svegliò, guardandosi intorno stordito, ma nella stanza immersa nel buio riuscì a malapena a distinguere il cesto che Mara aveva lasciato sul tavolo. Ansimava e il collo gli faceva male a causa della posizione scomoda in cui si era addormentato. Rabbrividì e si strinse le braccia attorno al corpo. Singhiozzò. Non riusciva ancora a credere all'inferno in cui era sprofondato e temette di perdere il filo della ragione. La vita come l'aveva conosciuta fino a qualche settimana fa gli era stata portata via: ora era rimasta solo una pura lotta per la sopravvivenza, e per quale motivo? Ideologie? Razze? Gli sembrava tutto così senza senso; gli mancava la sua casa, i suoi genitori, il pianoforte. Gli mancavano i pomeriggi in cui, seppure senza poterla toccare, aveva avuto Mara tutta per sé: sì, rimpiangeva tutto, anche quegli insopportabili esercizi alla tastiera che sembravano non finire mai. Non ebbe la forza di immaginare cosa doveva sopportare Mara adesso. Il pensiero che quella specie di cinghiale la stesse penetrando era insopportabile: il dolore allo sterno diventò così forte che il cuore sembrò stargli per esplodere. All'improvviso, sentì una mano posarsi sua spalla e sussultò. «Sono qui» gli sussurrò Mara all'orecchio. Yael non riuscì a crederci. Non tentò nemmeno di frenare le lacrime che iniziarono a scendere copiose lungo le sue guance. Mara lo abbracciò da dietro la schiena, avvolgendogli le braccia attorno al petto e appoggiando il mento sulla sua spalla. Il ragazzo sentì i lunghi capelli accarezzargli la guancia e ne prese una ciocca tra le dita. «Mi dispiace tanto» sussurrò Mara, baciandolo sulla nuca. Yael non riusciva a smettere di piangere, avvolto da quell'abbraccio che gli stava riaccendendo nel cuore una speranza per cui lottare. «Devo andare, ora» disse Mara. Gli prese il viso tra le mani e lo baciò sulle labbra. «Non voglio che s'insospettisca.» Mara corse fuori dalla stanza e camminò sotto la notte stellata. Dopo essersi guardata attorno furtiva, accelerò il passo per tornare alla sua baracca. Il capo dei partigiani uscì dalla latrina, e vide Mara che correva. Sorrise compiaciuto, felice per la notte che era ancora lunga.

I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora