Yael trascorse giorni abbandonato all'apatia più totale, perdendo il conto del tempo che passava. Aveva anche smesso di pregare che qualcuno venisse in suo aiuto perché tutti sembravano averlo dimenticato. Teneva le finestre barricate, e l'afa in casa era insopportabile. A pomeriggio inoltrato, solo la fame lo convinse a uscire dal letto per scendere in cucina a cercare qualcosa da mangiare, ma non trovò pane, né carne o nulla di commestibile. Provò a cercare nella ghiacciaia ma, aprendo lo sportello, gli salì alle narici solo il puzzo di alcune albicocche marce e si ritrasse disgustato. Yael era infastidito dall'odore di sudore rancido che aleggiava nelle stanze, ma l'idea di aprire le finestre lo terrorizzava: dopo quello che era successo, non aveva nemmeno il coraggio di scostarle per lasciare entrare un refolo d'aria. Che senso aveva, però, continuare oltre in quella sterile attesa? Osservando desolato una mosca che ronzava sopra i piatti sporchi dentro il lavello, capì che doveva trovare il coraggio di mettere il naso fuori di casa per rendersi conto di cosa stesse succedendo e trovare un modo per aiutare i propri genitori. Riempito di acqua un catino, si sciacquò alla meglio e indossò un pantalone stirato. Lo prese dal vestito che sua madre teneva riposto per l'esame al conservatorio, che non ci sarebbe più stato e cui i suoi genitori, dopo tutti questi sacrifici, non avrebbero mai potuto assistere. Yael si diresse con coraggio verso la porta, ma si bloccò, come ipnotizzato, ad osservare gli stipiti. Pensò, pentito, che era proprio un peccato che suo padre non ci avesse mai attaccato quei benedetti versetti. Il pensiero di quanta speranza i suoi genitori avessero riposto in quell'esame al conservatorio gli lacerò il cuore; sospirando, abbassò la maniglia e uscì alla luce. Quasi accecato, talmente si era disabituato al sole, Yael vacillò stordito, come un malato cui fosse appena stata somministrata una medicina troppo forte. Il pianista posò i piedi sul vialetto che, di solito, guidato dall'abitudine, percorreva senza nemmeno avere bisogno di guardarlo, ma oggi quel giardino gli sembrò un posto diverso, ricco di colori e profumi che non aveva mai notato. Sentì come un morso che gli stringeva lo stomaco e si chinò sulle siepi di lavanda, a raccogliere i mozziconi che i militari avevano lanciato quella mattinata tra i ciuffi color lilla. Passò la mano sulle spighe e annusò a lungo l'odore rimasto sulle sue dita, come se fosse l'unica presenza tangibile di sua madre. Quella fragranza gli riportò in mente i ricordi felici di tutti gli anni passati e, per non soffrire oltre, uscì dal giardino, lasciandosi alle spalle quella casa che, da culla della sua infanzia, si era trasformata in un insopportabile sepolcro imbiancato. Il sole splendeva come se fosse un qualsiasi pomeriggio estivo, come tanti altri, ma, camminando per le vie del borgo, Yael si accorse che c'era qualcosa di strano. Non c'era nessuno in giro e, nonostante l'orario, le saracinesche erano tutte abbassate, compresa quella del panettiere vicino a casa sua, dove aveva sperato di poter comprare un pezzo di focaccia con i pochi spiccioli trovati frugando nei cassetti. Sentendo lo stomaco che brontolava, Yael accelerò il passo per raggiungere il bar della piazza, pensando di poter almeno mangiare un panino da Giuseppe. Mentre camminava spedito, Yael incrociò gruppi di militari che oziavano fumando all'ombra dei portici o chiacchieravano con il calcio del fucile appoggiato al marciapiede, e pensò che non ne aveva mai visti così tanti in giro. Arrivato al cancello del parco, con suo grande disappunto, lo trovò chiuso da una catena con un pesante lucchetto: non avrebbe potuto prendere la solita scorciatoia per arrivare al Bar Impero. In compenso, gli venne un'idea: non potendo tagliare per il parco, avrebbe dovuto passare sotto il palazzo del suo insegnante di pianoforte e forse avrebbe potuto chiedere aiuto a lui. Questa idea gli donò un po' di tranquillità e si sentì davvero stupido per non averci pensato subito. Corse ansioso verso la casa del maestro e, una volta giunto davanti al portone, suonò con insistenza il campanello. Nonostante i ripetuti tentativi, però, nessuno rispose. Yael pensò che il maestro dovesse essere uscito di casa, magari per qualche commissione. Sentì il sole che gli picchiava sulla testa: anche se il pomeriggio stava volgendo al termine, faceva ancora molto caldo. Provò a suonare di nuovo e, non ricevendo risposta, decise di attendere all'ombra il suo ritorno. Si sedette su una panchina sotto un gelso, stanco e affamato. Quell'afa insopportabile non aiutava certo a migliorare la situazione. Yael chiuse gli occhi perché sentiva dei leggeri giramenti di testa. «Ebreo!» urlò qualcuno. Yael non diede peso più di tanto a quel grido ma, quando riaprì gli occhi, si trovò circondato da tre reclute fasciste. «Fermo!» gli intimò uno dei militari, puntandogli contro la pistola di ordinanza. Il giovane ebreo lo riconobbe: era un suo vecchio compagno di classe, con cui avevano fatto un paio di anni di Ginnasio assieme, prima che quello fosse bocciato e abbandonasse la scuola. Il soldato continuava ad agitargli la pistola davanti al naso, ma a Yael quella scena faceva quasi ridere: quel ragazzino, che in classe tutti prendevano in giro, adesso si atteggiava ad avanguardista dentro a una divisa dalle maniche che gli pendevano larghe quasi di mezza spanna. «Sono io» esclamò Yael, alzandosi. «Non mi riconosci?» gli chiese, quasi giovialmente, con un tono di confidenza che allarmò gli altri due fascisti, che guardarono interrogativi il loro camerata. Il militare riconobbe il suo vecchio compagno di scuola ma, spaventato dal timore di fare una brutta figura con i suoi camerati, afferrò la pistola per il calcio e colpì Yael brutalmente sulla fronte. L'ebreo urlò e crollò in ginocchio per il dolore, mentre il sangue prese a colargli negli occhi quasi accecandolo. Il vecchio compagno di classe lo fece alzare strattonandolo, e lo obbligò a camminare di fronte a loro, mentre un altro soldato lo teneva sotto tiro con il fucile. Stordito e dolorante, Yael camminò come ipnotizzato, lasciandosi guidare dalla canna del fucile che sentiva premergli contro la schiena. Chiedendosi preoccupato che cosa ne sarebbe stato ora di lui, cercò di asciugarsi il sangue con un fazzoletto, lo stesso che gli aveva lasciato Mara quel giorno in cui Stefano e i suoi teppisti l'avevano malmenato. Per strada c'era poca gente e al loro passaggio gli altri compaesani si spostavano sull'altro marciapiede. Le foglie dei gelsi tremolavano al soffio di un gentile refolo di brezza, mentre i giovani fascisti camminavano dietro di lui, discutendo del Torino e di come avrebbe vinto lo scudetto se la guerra non avesse compromesso il regolare svolgersi del campionato. A vederli così, sarebbero sembrati dei compagni di scuola che tornavano a casa per fare merenda dopo le lezioni, se non fosse stato per il fucile che Yael si ritrovava puntato alla schiena e il sangue che gli rigava il viso tra gli occhi. Arrivati davanti alla questura, il suo ex compagno di liceo lo obbligò a salire la breve scalinata e aprì il pesante portone in noce.
Camminarono lungo un corridoio spoglio, con le porte chiuse e senza finestre, entrando in un gabbiotto della portineria con il motto "Per aspera ad astra" inciso sotto a un busto di Mussolini, dove un carabiniere gli mise sotto il naso delle carte da firmare. Mentre compilava i documenti, Yael faticò a trattenersi dallo scoppiare a ridere: i suoi coetanei, con le loro divise lavate e stirate, ce la stavano mettendo tutta per apparire credibili nel ruolo di conquistatori dell'impero, ma quella scena gli faceva solo pensare di essere seduto nella platea di un teatro ad assistere a una commedia. «C'è qualcosa di divertente?» gli chiese infastidito il carabiniere, accorgendosi che il ragazzo stava ridendo sotto i baffi. Yael abbassò lo sguardo per non fissare il graduato negli occhi, ma questo suo gesto non fece che innervosire maggiormente il piantone. «Questo mi prende per i fondelli!» urlò il carabiniere, scattando in piedi arrabbiato. L'ebreo arretrò goffamente e inciampò in una sedia, ruzzolando sul pavimento. Il carabiniere allargò le braccia sconsolato e tornò a sedersi. «Levatemi di torno questo buffone» ordinò, tornando a chinarsi senza entusiasmo sul faldone di anagrafiche che stava controllando. Un soldato tirò un calcio a Yale per farlo alzare, e lo spinsero con il fucile fuori dall'ufficio. Mentre si avvicinavano alla porta in fondo al corridoio, Yael sentì come dei gemiti sommessi. Due militari stavano di guardia e, vedendoli arrivare, uno di loro fece scattare la serratura. Il soldato che era stato un suo vecchio compagno di scuola, lo spinse dentro a uno stanzone così pieno di gente stipata, che a Yael sembrò di essere finito in un carro di bestiame. Nella stanza aleggiava un puzzo acido che gli provocò il voltastomaco e dovette appoggiarsi a un muro assalito da un conato di vomito. Quando l'attacco di nausea fu passato, il giovane ebreo trovò il coraggio di alzare gli occhi verso quel desolante girone dantesco in cui era stato imprigionato. In quella che doveva essere stata una vecchia mensa, uomini anziani e donne, in numero almeno doppio rispetto a quanti quel posto potesse contenerne, stavano buttati alla disperata su panche di legno o sdraiati sui cenci, mentre alcuni bambini giocavano a correre, creando una confusione che non portava allegria, ma riusciva solo a innervosire i prigionieri già stanchi. Lo stordimento rischiò di sopraffarlo. Incredulo, cercò sollievo da quell'incubo cercando di raggiungere due grandi finestroni protetti da sbarre di ferro, da cui entrava della luce e quel poco di aria appena sufficiente per non fare morire di asfissia tutta quella gente. Yael sprofondò in un abisso di malinconia: che cosa avrebbe potuto fare ora, imprigionato e solo? Vinto dallo sconforto, iniziò a piangere sommessamente e si pentì amaramente di non essere rimasto nascosto nella villa dei suoi genitori a lasciarsi morire di fame: ora, chissà quali atroci angosce lo attendevano. Mentre delirava febbricitante, gli sembrò come di sentire qualcuno che lo chiamava. Pensò di avere sognato. Si chiese chi mai avrebbe potuto conoscere il suo nome, dentro quell'inferno Invece no, non lo aveva immaginato perché sentì una voce che ripeteva ancora distintamente il suo nome. Si guardò attorno tra i visi indifferenti degli altri prigionieri e si accorse di un volto amico, la cui visione fu tanto inaspettata quanto dolce. Il suo vecchio maestro di pianoforte stava sgomitando tra gli altri prigionieri per avvicinarsi a lui e, quando i loro occhi s'incrociarono, il cuore gli fece un balzo nel petto. Il giovane pianista lo abbracciò come chi avesse appena ritrovato un padre. Seppure non si trattasse del suo padre biologico, era sicuramente quello che, trasmettendogli la musica, gli aveva donato la vita in senso spirituale.
🎹Spazio autore🎹
La descrizione dello stanzone è ispirata alle illustrazioni di ambienti analoghi fatte da Art Spiegelman nel suo capolavoro Maus.
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I silenzi del pianoforte
Historical Fiction[COMPLETA] 1943. Stefano e Yael sono due adolescenti, diversi tra loro, ma accomunati dall'amore per la stessa giovane ragazza, Mara, una studentessa della borghesia bene della città. Yael è un giovane ebreo, uno studente di pianoforte che vive imme...