Dall'ampia finestra affacciata sulla piazza, i raggi del sole inondavano di luce l'appartamento del maestro, un signorile attico stipato di libri e spartiti, al centro del quale dominava un pianoforte a coda dalla scocca nera come la notte e l'accordatura cristallina. Sprofondato nella poltrona sotto la libreria, l'anziano musicista ascoltava assorto l'esecuzione di Yael, quasi ingobbendosi su sé stesso, con gli occhi del suo magrissimo volto che fissavano un dipinto in cui cavalli tratteggiati geometricamente galoppavano impetuosi, mentre con le orecchie controllava minuziosamente che l'interpretazione del suo allievo prediletto fosse priva di errori. Seduto al pianoforte, lo studente lottava con dei fastidiosi bagliori che gli impedivano di leggere le note e interruppe la melodia per spostare lo spartito sul leggio, in modo da evitare i riflessi sulla carta. Il maestro lo rimproverò, ordinandogli di non perdere tempo in sciocchezze del genere; Yael riprese imbronciato a suonare dalla battuta su cui si era fermato, sforzandosi di continuare andando più a memoria che affidandosi alla partitura. Le sue mani stavano correndo determinate sulla tastiera, e lui si stava preparando ad affrontando un passaggio particolarmente tecnico della "Patetica". Era perciò così concentrato, che non si accorse delle urla che salirono dalla piazza. Appoggiata sul tavolino da fumo l'acquavite che stava sorseggiando, il maestro gli fece cenno di smettere di suonare e si affacciò alla finestra, rimanendo nascosto dietro le tende a spiare che cosa stesse succedendo. Il giovane ebreo bloccò con le dita l'asticella del metronomo; incuriosito, si avvicinò al maestro per guardare anche lui che cosa stesse succedendo.
Vicino al sagrato della chiesa, due giovani reclute fasciste avevano rivolto una battuta volgare a una contadina, dopo che questa si era tolta lo scialle a causa dell'afa. Alcuni braccianti, seduti a riprendere fiato sotto la veranda del bar, non avendo gradito il tono di quei commenti, avevano circondato quei ragazzini arroganti, che si erano resi conto in ritardo di aver alzato troppo la cresta. Per loro fortuna, una ronda di passaggio si era accorta degli schiamazzi e si era fermata per calmare i bollenti spiriti, impedendo ai braccianti di fare quello che le truppe alleate, ancora impegnate sulle coste siciliane, non erano finora riuscite a portare a termine. Davanti a quella mala parata dei colonizzatori dell'impero, alcuni zuzu, appoggiati a fumare fuori dal bar, avevano iniziato a insultare e deridere i soldati; e se i ragazzini prima avevano sconfinato un po' più del dovuto, non era stato niente al confronto delle offese che ora stavano echeggiando in tutta la piazza, urlate da quei perditempo ubriachi. Non potendo tollerare oltre quell'umiliazione, un fascista si era avvicinato al gruppetto di quegli spavaldi, mettendo in bella mostra la fondina con la Beretta d'ordinanza e agitando minaccioso il manganello. Non ottenne, però, l'effetto intimidatorio sperato, anzi: un poco di buono estrasse un coltello a serramanico, e la lama brillò. Il manganello rotolò sul marciapiede, mentre il soldato s'inginocchiava, tenendosi le mani premute sulla pancia sanguinante. La vista del sangue infiammò gli animi dei suoi camerati e nella piazza assolata rimbombò un colpo di revolver. Un contadino, ferito di striscio al braccio, urlò, lanciandosi contro il balilla che aveva estratto la Beretta, mentre i perditempo del bar afferravano bottiglie e coltelli, accalcandosi attorno ai militari. Un avanzo di galera, conosciuto da tutti in paese, approfittò della situazione per unirsi alla cagnara e, afferrata una sedia della veranda, la lanciò contro la Fiat dei militari. La portiera si aprì e scese una camicia nera, preoccupata dalla folla che aveva attaccato la pattuglia, mentre i soldati cercavano di difendersi menando manganellate. Arrivarono dei carabinieri al galoppo, ma i loro cavalli s'innervosirono per la troppa confusione. Tirando le briglie, rimasero in sella senza sapere come intervenire: odi e rancori sopiti da anni sotto la maschera ipocrita di un provinciale quieto vivere erano ormai irrimediabilmente esplosi e la gente aveva solo voglia di darsele di santa ragione. Mentre i negozi abbassavano le saracinesche, da una camionetta appena parcheggiata, scesero dei repubblichini con i fucili alla mano, togliendo le sicure e preparandosi a sparare. Il maestro si versò dell'altra vodka, osservando lo spettacolo divertito come se si trovasse al cinematografo. Contemplare quell'esplosione di violenza da dietro la finestra, nella tranquillità ovattata dello studio, lasciò addosso a Yael una sensazione di estraniamento, quasi surreale. La scena gli sembrava assurda: il ragazzo riconobbe alcune facce, che fino a ieri al massimo avevano litigato al bar per una briscola, che ora si stavano picchiando assetate di odio, solo con il desiderio di fare male a chiunque fosse capitato loro sottomano. I soldati puntarono i fucili e un tenente minacciò di aprire il fuoco. La folla si riversò in direzione dei militari che, impreparati a fronteggiare quanto stava accadendo, premettero sui grilletti. A bocca aperta, Yael assistette dalla finestra a un massacro che aveva dell'incedibile: quella tranquilla piazza di un borgo di provincia si era trasformata nella scena di un'Apocalisse. Forse, pensò, stava ancora dormendo e questo era solo un sogno: tra poco sua madre l'avrebbe svegliato, chiamandolo per andare a fare colazione. Invece, nessuna mano venne a scrollargli la spalla; i militari continuarono a sparare senza fare distinzione, mentre i contadini cercavano, confusi, una via di fuga, senza avere però nessuno scampo sotto quel fuoco incrociato: i feriti cadevano sul porfido della piazza, chiazzando di sangue le mattonelle su cui i piccioni fino a ieri avevano beccato le briciole degli aperitivi. Quando il sole toccò il mezzogiorno, i soldati erano riusciti a riportare l'ordine, anche se mietendo più vittime di quante la rissa da loro sedata avrebbe mai potuto causarne. Alcune reclute vagavano per la piazza come ubriache, sconvolte dall'aver contato tra le persone massacrate i compaesani con cui fino a ieri avevano giocato a pallone dopo il picnic della domenica. Il giovane ebreo vide i due dottori del paese, impegnati a fare quello che potevano per cercare di aiutare i feriti più gravi e riconobbe il lattaio da cui aveva preso il gelato con Mara l'altra sera: era seduto con la schiena contro il muro della chiesa e teneva una mano appoggiata sulla tempia sanguinante. Il maresciallo dei carabinieri parlava con un tenente dell'esercito. Mentre le persone ingiuriate più lievemente abbandonavano la piazza, tornando alle loro case con passo malcerto, i corpi dei meno fortunati, chiusi in sacchi di juta, erano caricati su un camion militare. Yael pensò alle mogli di quei disgraziati, che magari li stavano aspettando a casa, davanti ai piatti di pasta al sugo ancora fumanti, ignare dell'accaduto. «È arrivato il prefetto» mormorò il maestro di musica, riconoscendo una delle figure appena scese da una portiera ornata con il fascio littorio «chissà che cosa riuscirà a combinare.» Il tono cinico dei commenti del professore di musica suonò così distaccato da essere quasi fastidioso. Il ragazzo si chiese se il suo maestro fosse davvero una persona così antipatica e piena di sé al punto da guardare dall'alto verso il basso tutta questa sofferenza, oppure se il suo sarcasmo non fosse nient'altro che uno studiato meccanismo di difesa per non impazzire davanti alla totale irrazionalità di quella carneficina. Le porte della chiesa si aprirono e il prete uscì sul sagrato. Sembrava che stesse controllando i danni subiti dalla cattedrale: i preziosi intarsi secolari erano stati scheggiati dalle fucilate e le pallottole avevano incrinato il rosone dell'evangelista Luca. Il sagrato era sporco di sangue: il prete si chiese quanto sarebbe costato pulire e sistemare tutti quei danni. Si augurò che, la prossima volta, quei maledetti bifolchi si fossero messi davanti al municipio a fare le loro rivoluzioni, pensò, imprecando per tutti i soldi che aveva appena speso per restaurare la facciata. Yael guardava perplesso da dietro la finestra: la crisi sembrava essere superata e la piazza lentamente si stava svuotando, per ritornare alla solita apparente tranquillità. Chiese al maestro che cosa ne pensasse di quanto era appena accaduto. «Forse è meglio se ti accompagno a casa» si limitò a rispondere il maestro «i tuoi genitori potrebbero essere in pensiero.» Lo studente e il suo tutore scesero le scale ed uscirono dal massiccio portone del palazzo. Mentre camminavano tra i feriti seduti sotto i portici ornati dagli affreschi settecenteschi, due soldati gli intimarono di fermarsi, chiedendogli i documenti; un maresciallo, però, riconobbe il maestro di musica e ordinò di farli passare. Yael e il maestro si lasciarono alle spalle la piazza, entrando nel parco. Passeggiando sotto i gelsi, con gli occhi rapiti dallo spettacolo delle siepi in fiore, sembrò loro di essersi trasferiti in un altro universo rispetto all'assurda scena di violenza cui avevano appena assistito. «Che cosa ne pensa?» chiese una seconda volta Yael al suo maestro, che continuò a camminare, con lo sguardo abbassato sulle aiuole, come se non avesse sentito la domanda. Arrivati alla villa, il ragazzo lo invitò ad entrare a bere qualcosa, ma il maestro rifiutò gentilmente. Yael non poté fare a meno di notare che il suo viso era cambiato: sembrò che quella breve passeggiata l'avesse fatto invecchiare di almeno una decina d'anni. Mentre erano lì, fermi, nel giardino della villa, sua madre uscì dalla porta, correndo ad abbracciarlo. «Ero così in ansia» gli disse, baciandolo sui capelli «tuo padre voleva passare a prenderti, ma i fascisti gli hanno impedito di avvicinarsi alla piazza: non capivamo cosa stesse succedendo.» «Che cosa vuole che sia successo» rispose il maestro, rompendo improvvisamente il silenzio. La sua voce si era fatta stridula e parlava strabuzzando gli occhi come una civetta. «La feccia dovrebbe starsene in basso, ecco cosa è successo: la feccia non sa più stare al suo posto» esclamò sprezzante il maestro. Poi, voltando le spalle, se ne tornò a casa, senza neppure salutare.
🎹 Spazio dell'autore 🎹
La scena descritta in questo capitolo è ispirata a una strage avvenuta nel paese di Samarate (VA), vicino al paese dove è nata mia madre. Il fatto storico a cui si ispirano i fatti di questo capitolo è noto come La strage di Samarate, un tafferuglio avvenuto nei giorni caotici di fine aprile 1945, quando un gruppo di dieci militari della G.N.R. Divisione Etna cadde nelle mani dei partigiani in quel di Samarate (Varese). Si trattava di giovanissimi, da 16 a 19 anni, tutti barbaramente uccisi. Ho conosciuto questo avvenimento grazie alla testimonianza di un signore nativo di quella città, amico di mia madre, che ha assistito ai fatti quando era un bambino piccolo. Sul web ci sono alcune descrizioni dei fatti di quei giorni, ma gli aneddoti descritti dall'amico di mia madre sono molto più spaventosi dei racconti che si possono leggere online. Al di là di questo specifico evento, il capitolo si ispira anche a una scena descritta nel fumetto Maus di Art Spiegelman, cioè una sequenza in cui viene vividamente illustrato un rastrellamento di civili ebrei da parte delle truppe Naziste.
"Zuzu" è un termine gergale usato nella prima metà del Novecento per indicare persone dall'aspetto fuori dal consueto e dall'atteggiamento ribelle o aggressivo. Un po' l'equivalente del nostro odierno "tamarro".
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I silenzi del pianoforte
Historical Fiction[COMPLETA] 1943. Stefano e Yael sono due adolescenti, diversi tra loro, ma accomunati dall'amore per la stessa giovane ragazza, Mara, una studentessa della borghesia bene della città. Yael è un giovane ebreo, uno studente di pianoforte che vive imme...