Capitolo 16

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Fuori dal circolo degli ufficiali pioveva. Yael osservava dalla finestra le gocce che battevano sui tetti della caserma, mentre sedeva al pianoforte in penombra, accarezzando pigramente la tastiera. Il giovane pianista stava ripassando la scaletta dei brani che avrebbe dovuto eseguire all'ora cena, ma i tasti che sfiorava sembravano non emettere suono, ovattati com'erano dal ticchettio della pioggia. Il successo riscosso con l'esibizione per il tenente Möller aveva fruttato a Yael un posto fisso come pianista alla mensa degli ufficiali, anche se lui non aveva ancora le idee ben chiare su come considerare questa sua nuova sorte. Da una parte, non era certo il sogno della sua vita, suonare per degli assassini quando pranzavano; dall'altra, quell'occupazione era sicuramente meglio di quei massacranti lavori di corvè deposti sulle spalle degli altri prigionieri. Ammaliato dallo scroscio dell'acquazzone, il giovane pianista faticava a concentrarsi sullo spartito: sentiva solo l'acqua che scivolava giù dalle tegole e, tra la fioca luce del lampadario in stile Liberty e il buio del temporale fuori dalle finestre, l'unica cosa che riusciva a fare bene era solo sbadigliare. Proprio quando pensava di stare per crollare dal sonno, la porta si spalancò. Distratto dall'improvviso rumore, Yael si voltò e vide entrare Stefano, fradicio come un pulcino. Levatosi il soprabito bagnato, il giovane fascista lo gettò su un divano e si appoggiò al bancone. Si accese una sigaretta e scolò tutto in un fiato il bicchiere di anice che il soldato addetto al bar, ormai conoscendo i suoi gusti, gli aveva servito. Yael osservò perplesso il vecchio amico. La prima impressione che gli fece fu di sembrargli molto turbato ma, poiché con Stefano non sapeva mai come comportarsi, decise di non chiedergli se fosse successo qualcosa. Per non sbagliare, Yael fece finta di non averlo notato, e aprì uno degli spartiti del repertorio che il tenente Möller gli aveva ordinato di preparare. Con suo immenso stupore, si ritrovò in mano una riduzione per pianoforte di un'opera di Weill. Il ventaglio di musicisti commissionatogli dall'ufficiale tedesco si era rivelato, contro ogni timore, una piacevole sorpresa. Quando il colonnello lo aveva assegnato a questa nuova mansione, si era già visto condannato a meccaniche ripetizioni delle retoriche partiture di Orff e Mascagni; il tenente, invece, gli aveva dimostrato che, davanti alla virtù di un artista, era proprio lui, l'inflessibile SS, il primo a infrangere le direttive del regime che rappresentava. Mentre ne assaggiava timidamente i primi accordi, si accorse con la coda dell'occhio che Stefano stava camminando verso di lui. Yael continuò a fingersi concentrato sulla musica, anche se aveva un po' paura perché, ultimamente, non sapeva più che cosa aspettarsi dalle alzate d'ingegno del vecchio amico. In piedi, dietro alle sue spalle, Stefano lo applaudì. «Bravo il nostro artista» commentò il soldato fascista, in tono sarcastico. Sospirando, Yael smise di suonare, attendendo l'evolversi degli eventi senza sapere che cosa rispondere. «Com'è che era?» chiese Stefano, allargando le braccia come se stesse per recitare la preghiera del "Padre nostro". «Ascolta, non sento, parole che dici ... piove sui larici, sui pini lontani e vicini ...» declamò, barcollando come un ubriaco, fino a che non inciampò nel tappeto e cadde su una poltroncina. «Va tutto bene?» chiese il giovane ebreo, stupito dal curioso comportamento del suo amico, che di solito si sforzava di mantenere un atteggiamento formalmente irreprensibile. Per tutta risposta, Stefano si lasciò cadere sulla poltroncina logora e piena di strappi. «Oggi ...» accennò, ma subito interrompendosi. Yael pensò che non gli avesse mai visto un'espressione così sconvolta in faccia. L'acqua scrosciava a secchiate sulle finestre del circolo mentre il vecchio lampadario si spegneva e riaccendeva, al ritmo dei tuoni del temporale. Dei singhiozzi coprirono il rumore della pioggia e, stupito, Yael si accorse che Stefano stava piangendo. Come chi avesse lottato tutta la vita per rinnegare le proprie emozioni, ma ora fosse arrivato a quel punto in cui la maschera si fosse incrinata, il suo virile amico non si sforzò di nascondere le lacrime che gli rigavano le guance. «Oggi» confessò Stefano, trovando il coraggio di riaprire bocca «ho ucciso una persona». Sorpreso da questa improvvisa confidenza, il ragazzo non seppe come comportarsi. I due vecchi amici rimasero ad ascoltare il rumore della pioggia, poi Yael non riuscì più a reggere l'imbarazzante silenzio. «Era la prima volta?» chiese, cercando di dare alla voce un tono di sorpresa, manco si stesse parlando di avventure in qualche casa di tolleranza. Stefano sorvolò sul tono frivolo della domanda perché sapeva che il suo amico era sempre stato negato nel trovare le parole giuste. «Sì.» si limitò a rispondere, in tono asciutto. «Che cosa si prova?» chiese ingenuamente Yael. Stefano gli lanciò un'occhiataccia, infastidito da quei suoi modi di dire inopportuni. Maledizione a lui, pensò, a quando aveva ceduto alla debolezza di confidarsi con quell'imbecille. Ormai, però, si era sbilanciato troppo, pensò Stefano, e non aveva più possibilità di tirarsi indietro. Si decise perciò a raccontargli che cosa fosse successo. «Stavo camminando lungo il fiume» iniziò Stefano «quando ho incrociato un partigiano: scendeva dalla collina, forse per rifornirsi di provviste in qualche fattoria.» Tirò una lunga boccata di fumo, ignorando la fitta di dolore all'altezza del petto. «Forse ha pensato che fossi disarmato: mi si è lanciato addosso, ma il suo vecchio 1891 si è inceppato.» Spense il mozzicone in una tazzina di caffè appoggiata sul pianoforte. «Mentre cercava di tirare, ho estratto la mia Beretta e l'ho centrato in piena fronte: è caduto come un sacco di patate.» 

Cercò un'altra sigaretta nelle tasche

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Cercò un'altra sigaretta nelle tasche. «Aveva la nostra età, una faccia da bravo ragazzo, ci avevo addirittura scambiato qualche parola al Bar Impero: credo tifasse il Torino.» Colpito da un particolare, il giovane ebreo aveva però perso il filo del dettagliato resoconto del militare. Yael bruciava dalla curiosità di fargli una domanda, ma temeva la sua reazione. Come se gli stesse leggendo nel pensiero, Stefano lo anticipò: «Ti starai chiedendo perché mi sia arrischiato a costeggiare il fiume da solo». In effetti, Yael non era per niente convinto dalla dinamica dei fatti che l'amico gli aveva descritto: il fiume vicino ai boschi era una specie di zona di nessuno e i fascisti non la pattugliavano perché in quel periodo dell'anno era troppo paludosa; era perciò notoriamente diventata un punto di transito sicuro per i partigiani che scendevano dai loro rifugi sulle montagne in cerca di cibo. «Stavo andando a trovare Mara» confessò Stefano. A sentire quel nome, il cuore di Yael sobbalzò e il respiro gli si bloccò in gola. Mara. Era viva. Il suo viso s'illuminò come se fuori dalle finestre il nubifragio avesse lasciato posto ai raggi del sole. «Sei rimasto in contatto con lei?» gli chiese il ragazzo, a cui quel semplice accenno aveva cancellato ogni interesse per il dramma interiore del suo amico «dove si trova, adesso?» «Vive con un gruppo di partigiani» rispose rassegnato Stefano, come se non avesse più nulla da perdere «sono nascosti in un rifugio tra i boschi in alta collina.» «Con i partigiani?» chiese Yael stupito «come ha fatto a mettersi in contatto con loro?» Stefano guardò fuori dalla finestra, ignorando la domanda del vecchio amico. Osservò la bandiera italiana afflosciata, inzuppata dalla pioggia. «Presto con una retata li prenderemo tutti» spiegò Stefano, con un tono più preoccupato che orgoglioso «il comando ha ricevuto una soffiata precisa sulla posizione del loro nascondiglio.» «Allora Mara è in pericolo?» chiese l'ebreo, sentendo la fievole luce accesa nel suo cuore già minacciata dalle tenebre di quella maledetta guerra. Stefano estrasse un pettine dalla mimetica e si sistemò i capelli, arruffati dalla tempesta che l'aveva sorpreso in aperta campagna. Si fece una riga perfetta, come se fosse appena uscito dal barbiere. «Non avevi già combattuto sul fronte?» chiese Yael, ritornando al discorso iniziale con la speranza di fargli trapelare maggiori informazioni «non ti avevano già ferito una volta?» Stefano scoppiò in una risata isterica, gettando la testa all'indietro. «Sì, qualcosa del genere» confessò, abbassando poi la voce: «Ero di guardia, stanco, ho appoggiato il fucile senza sicura» fece una breve pausa e ritirò il pettine nella tasca «ed è partito un colpo». Non sapeva nemmeno perché gli avesse raccontato questa storia. Stefano, l'audace paladino della patria, pensò Yael, guardando l'amico senza riuscire a mascherare lo stupore. Poi, decise di andare dritto al sodo, in modo da evitare altre rivelazioni imbarazzanti: «Come sta Mara?» chiese, senza troppi altri giri di parole. Stefano, però, finse di non aver sentito, e cambiò discorso: «Come vanno le tue scalette?» domandò, ironico «dovresti essermi grato per la carriera che ti ho fatto fare qui dentro» esclamò, sprezzante. Il giovane pianista stava per accennare una risposta, ma il vecchio amico gli voltò le spalle, e s'incamminò verso l'uscita del circolo. «Quello stronzo di tedesco si è proprio preso una bella cotta per te» si lasciò scappare Stefano tra i denti, prima di ordinare un altro anice. Bevuto il liquore tutto d'un fiato, indossò il suo soprabito e uscì sotto la pioggia scrosciante. La porta si chiuse dietro le sue spalle e il pianista rimase a fissare l'uscio, con il cuore sconvolto da una tempesta di dubbi. Non sapendo che cosa fare, rimise lo spartito della "Patetica" sul leggio, rassegnato a riprovare quella sonata per l'ennesima volta. Mentre le sue dita scorrevano sui solchi ormai ben conosciuti degli accordi iniziali, Yael si abbandonò con il pensiero al ricordo di Mara: saperla viva lo riempì di una dolce speranza, che aveva creduto di non poter mai più sentire, e gli diede il coraggio di affrontare tutto quello che doveva ancora accadere.

I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora