Dalla finestra, un diafano raggio di luna attraversò il buio nella stanza, illuminando il viso di Mara, che riposava sdraiata accanto a lui tra le lenzuola. Incantato dalla bellezza di quel volto, Yael si chinò sulla sua bocca per rubarle un bacio, sfiorandole timidamente il seno che faceva capolino dalla camicetta sbottonata. Invece della gioia che si aspettava di sentire, però, un brivido gli attraversò la schiena e si accorse che c'era qualcosa di strano: le labbra di Mara erano ghiacciate. Yael provò ad accarezzarle le guance pallide e fredde, ma la ragazza non accennò a svegliarsi, rimanendo con le palpebre socchiuse. Lo squillo di una tromba lo fece svegliare da quel brutto sogno. Mentre, ancora confuso, Yael si stropicciava gli occhi ancora pieni di sonno, un caporale passò tra le brande gridando e picchiando contro le ante metalliche degli armadietti. Yael sbadigliò, scendendo pigramente dalla sua brandina, mentre gli altri prigionieri della camerata si affrettavano già a correre alle latrine. Da quando lo avevano imprigionato, continuava a fare incubi spaventosi e dormiva poco o niente, anche se non avrebbe saputo dire se per colpa del letto scomodissimo, una vera tortura per la sua schiena dolorante, oppure dell'aria irrespirabile, a causa del tanfo che aleggiava sempre nella camerata. Yael scese dal materasso sudaticcio e s'infilò una giacca da militare infeltrita che non veniva lavata da non sapeva nemmeno quanti giorni. Entrò controvoglia nelle latrine, cercando di ignorare il puzzo nauseante, giusto per il tempo necessario a soddisfare le proprie esigenze corporali e scappò fuori, correndo a cercare un po' di aria pulita nel piazzale al centro del quadrilatero, formato dai dormitori della caserma. Respirò a pieni polmoni la fresca brezza mattutina, osservando l'alba che faceva capolino da dietro gli edifici squadrati del campo; la pace, però, non durò a lungo: un maresciallo iniziò a urlare, ordinando ai prigionieri di schierarsi sull'attenti per l'appello, e il giovane ebreo corse a schierarsi in riga con gli altri. Un tenente sfilò a passarli in rassegna e distribuì gli odiosi lavori di corvè della giornata. Quando udì di essere stato assegnato alla pulizia degli uffici logistici, Yael si sentì sollevato, pensando che sarebbe potuta andare molto peggio, pensò, come ad esempio finire ad occuparsi della pulizia di quelle terrificanti latrine dei dormitori. Mentre il tenete completava l'appello, uno dei prigionieri non riuscì a trattenere uno sbadiglio e, con grande sgomento dei prigionieri, il tenente se ne accorse. Non avendo ancora ordinato di rompere le righe, per punirli di quella mancanza di disciplina, il tenente li obbligò a sdraiarsi sull'asfalto a fare delle flessioni. Dopo che i prigionieri ebbero iniziato ad eseguire il suo ordine, sdraiandosi sul piazzale ancora umido di rugiada, il tenente non sembrò trarre, però, particolare entusiasmo da quella sua trovata da aguzzino. Annoiato presto da quello spettacolo, ordinò di rompere le righe, congedando i prigionieri alle loro incombenze, e si ritirò al circolo degli ufficiali, desideroso solo di poter bere un cappuccino in santa pace. Il plotone si disperse e un caporale guidò Yael, con altri due prigionieri, attraverso i gelsi del parco, fino a raggiungere la scalinata all'ingresso del quartiere operativo. Le guardie sull'uscio scattarono sull'attenti al passaggio del loro superiore, che mostrò agli inservienti lo sgabuzzino con le scope e gli stracci. «Prima di sera questo schifo deve brillare!» ordinò il graduato e, lasciati quegli sguatteri alle loro incombenze, tornò fuori nel prato a fumarsi una sigaretta. Yael iniziò a ramazzare per il corridoio e, mentre scopava il pavimento con una scopa di saggina, vide Stefano che entrava, discutendo animatamente insieme ad altri militari. Li osservò dirigersi verso l'ufficio del tenente colonnello, mentre il suo vecchio amico gli passò a fianco, senza rivolgergli neppure di uno sguardo. Il giovane ebreo non riuscì a capire per quale motivo stesse soffrendo maggiormente: se a causa di questa situazione, in cui si era ridotto a fare da schiavo, trascorrendo le giornate in lavori degradanti, oppure per la mancanza dei suoi genitori e amici. Soprattutto, un dubbio lo riempiva di angoscia, e non riusciva a smettere di domandarsi quale destino fosse toccato in sorte a Mara. Aperta la porta dell'ufficio, Stefano andò a sedersi alla propria scrivania, accanto a quella del tenente colonnello. Il comandante della caserma ne aveva fatto il suo attendente perché si era subito accorto di quanto quel giovanotto fosse sveglio, al contrario di quegli altri addormentati che, ogni tanto, si ritrovava a fissare perplesso, chiedendosi da chi fossero stati raccomandati per averceli sempre lì, tra i piedi. Il piccolo ufficio puzzava di fumo e gli unici rumori che si sentivano erano l'ininterrotto ticchettio della macchina da scrivere, su cui il sergente annotava i verbali delle operazioni di rastrellamento, e il gracchiare di un ventilatore a pale che roteava pigramente sul soffitto, senza per altro riuscire a dare sollievo all'afa terribile di quelle giornate. Stefano detestava quell'ufficietto d'imboscati e, ogni volta che si sedeva a quella scrivania, si ritrovava a fremere impaziente come una tigre in gabbia, pensando ai commilitoni impegnati nelle azioni belliche mentre lui era costretto, a causa della ferita, a rimanere seduto a fare il passacarte. Per ingannare la noia, si accese una sigaretta, fingendo di controllare una lettera indirizzata alla pretura. Non aveva molto da fare quella mattina, che non vedeva in programma esercitazioni o movimentazioni di assetti; a parte il personale rimasto in caserma per i servizi quotidiani di corvè e la guardia, tutte le truppe erano, infatti, impegnate a perlustrare i boschi delle colline, alla ricerca di un covo di partigiani segnalato da una spia. Stefano era convinto che quei ribelli fossero solo dei traditori stipendiati dagli inglesi per mettere i bastoni tra le ruote alla loro rivoluzione. Credeva fermamente che ogni resistenza contro il regime non avesse speranza, e che quei tentativi di ribellione fossero tutti destinati a fallire. Nonostante le dure prove a cui l'esercito italiano era stato sottoposto in questi ultimi mesi, infatti, Stefano era sicuro che il successo avrebbe presto baciato in fronte la loro fulgida avanguardia. Spenta la sigaretta nel posacenere, si alzò, con l'idea di andare a tirare l'ora di pranzo al circolo degli ufficiali, giocando a scopone scientifico con i camerieri. Non fece in tempo a infilarsi il basco, però, che la porta si spalancò, lasciando entrare il maggiore tutto trafelato. «Abbiamo un'emergenza» esordì, cercando di attirare l'attenzione del suo superiore. Il colonnello alzò gli occhi da un vecchio "Corriere dello sport" e guardò storto quel fenomeno del suo sottoposto, chiedendosi che cosa si fosse di nuovo inventato per rovinare quella che sembrava iniziata come una mattinata così tranquilla.
«Che cosa succede, maggiore?» gli chiese, con tono di voce educato, ma che faticava a celare un certo fastidio. «Il tenente degli alleati continua a lamentarsi» sbottò il maggiore «dice che qui è un mortorio e che in paese non c'è nulla: si aspettava che noi avessimo organizzato qualcosa per rendere più piacevole la sua permanenza.» Il colonnello lo guardò perplesso: «Non credo di aver capito» commentò seccamente. «Il tenente dei tedeschi si annoia» spiegò il maggiore. Il colonnello lanciò in aria i fogli del giornale, prorompendo in una sequela d'insulti: «Si annoia?» sbottò il colonnello, ancora incredulo davanti a quell'assurda richiesta «dove pensa di essere, a teatro?». Il maggiore deglutì. «Il tenente ha fatto presente che, almeno per gli ufficiali del suo rango, gli accordi prevedevano la predisposizione di un programma d'intrattenimento: è una grave dimostrazione d'incuria non aver previsto degli svaghi per allentare la tensione delle operazioni belliche.» Il maggiore guardò verso gli altri ufficiali in cerca di sostegno. «Questa cosa potrebbe anche essere letta come un segno di tepore nei confronti dell'alleato.» Il colonnello cercò il pacchetto di sigarette in un cassetto della scrivania: «Che cosa vuole da me, ora, questo idiota?» sbottò «se si annoia, trovategli una puttana, che ci posso fare io?». «Faccio rispettosamente notare» precisò il maggiore in tono ossequioso «che stiamo parlando del tenente Möller.» «Möller» ripeté Stefano, che finora aveva solo ascoltato svogliatamente, mentre attendeva solo il momento opportuno per svignarsela al circolo «ancora quella piaga.» Il colonnello si accese una sigaretta. «Proprio a noi dovevano appiopparcelo, quel figlio di buona donna» esclamò, passandosi la mano tra i capelli bianchi «quello è peggio della peste in persona, è capace che per questa stupidaggine ci fa vedere i sorci verdi.» Il tenente Möller era un gerarca SS di stanza nella loro caserma con un piccolo drappello di soldati nazisti, in osservanza alle direttive di Roma sui rapporti con l'alleato. Sulla carta era lì solo per supervisionare le operazioni di arresto degli ebrei notabili della provincia, invece continuava a ficcare il naso dappertutto, forte dell'influenza che sapeva di esercitare sul generale di brigata, il classico italiano ossessionato dal complesso d'inferiorità nei confronti della macchina bellica tedesca. «E che cosa dovrei fare io adesso?» urlò il colonnello, passeggiando nervosamente su e giù per l'ufficio «che ci dobbiamo mettere a imbastire una compagnia teatrale per questo mangia patate?» Un guizzo attraversò la testa di Stefano. «Ho un'idea» esclamò, in tono trionfale «forse non ne siete informati, ma tra i nostri prigionieri annoveriamo un pianista di ottimo livello.» A sentire quelle parole, al colonnello s'illuminarono gli occhi. «Ma gliene importerà qualcosa a quel pazzo assassino del pianoforte?» chiese il comandante «siamo sicuri di non peggiorare solo la situazione?» «Certo che no» rispose Stefano con tono deciso «lasci fare a me: tutti sanno che i tedeschi impazziscono per la musica» concluse, sapendo che un luogo comune chiudeva ogni disputa meglio di mille argomentazioni. Il colonnello gli fece un impercettibile cenno di assenso con la testa e Stefano, quasi spintonando il maggiore rimasto imbambolato accanto alla porta, corse fuori dall'ufficio. Vide Yael che stava pulendo i vetri delle finestre con lo straccio e si diresse verso di lui a grandi falcate. Accortosi che Stefano stava venendo nella sua direzione, Yael alzò la testa dalla maniglia che stava lucidando e, vinto dalla nostalgia per i tempi passati, gli rivolse un timido sorriso. Quello che avvenne, però, superò ogni sua aspettativa. Stefano lo afferrò all'improvviso per il bavero del maglione, e lo strinse così forte quasi da strangolarlo. Lo sollevò di peso, sbattendolo con la schiena contro il muro e gli urlò in faccia: «Ti ricordi ancora come si suona quel pianoforte, ebreo?».
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I silenzi del pianoforte
Historical Fiction[COMPLETA] 1943. Stefano e Yael sono due adolescenti, diversi tra loro, ma accomunati dall'amore per la stessa giovane ragazza, Mara, una studentessa della borghesia bene della città. Yael è un giovane ebreo, uno studente di pianoforte che vive imme...