Capitolo 21

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Corse a perdifiato, tentando di ritrovare la stessa strada seguita all'andata. Guardando le orme degli stivali sul terreno fangoso, cercò di orientarsi, incurante dei rami che gli sbattevano in faccia: davanti ai suoi occhi c'era solo il viso di Mara. Inciampò in una radice, ruzzolando tra i rovi; si rialzò, con il braccio che riprendeva a sanguinare: gli faceva male, forse avrebbe avuto bisogno di medicarlo, ma riusciva solo a pensare al pericolo in cui si trovava l'unica persona per cui ancora gli importasse di vivere. Uscì in aperta campagna sotto le montagne innevate. Baciata dal sole, la limpida cima del Monte Stelvio s'innalzava sino a diventare tutt'uno con il cielo. La pace di quei picchi immacolati contrastava violentemente con la tempesta nella sua anima e gli fece pensare che quella scena non sembrava nuova. Con un tonfo al cuore, ricordò, dove avesse già visto questo paesaggio di montagna: era lo stesso dei sogni fatti nelle ultime settimane. Urlando, aumentò la falcata della corsa, spingendosi a un limite che nemmeno capì come il suo corpo smidollato riuscisse a sostenere. Non fece in tempo a scorgere la malga che il rombo di un motore lo mise in allarme: si gettò dietro una siepe, senza accorgersi del fosso nascosto sotto le fronde; ruzzolò giù dalla discesa mentre una pioggerella di sassolini gli cadeva sui capelli. Di sfuggita, riuscì a vedere la svastica sulla portiera della camionetta militare che si allontanava, alle prese con gli infidi tornanti che scendevano a valle. Con il cuore in gola, Yael riprese a correre verso la fattoria. Arrivato nell'aia dove aveva rivisto Mara, si fermò, ansimando con il fiatone. Il cortile era ricoperto dai cadaveri dei partigiani, tra le cui pozze di sangue le galline beccavano, faticando a trovare i soliti chicchi di grano in quel lago rosso. Si appoggiò alla staccionata, stravolto dalla vista di quell'incubo e, a causa dell'odore di carne bruciata misto a piombo che aleggiava nell'aria, fu assalito da un conato di nausea così forte da fargli girare la testa. Quando riuscì a riacquistare un barlume di autocontrollo, s'incamminò spaventato tra i corpi riversi nel fango, mentre le galline svolazzavano via al suo passaggio. Lo sguardo gli cadde su un partigiano dall'aria familiare e riconobbe il suo volto: era il soldato che si era finto svenuto ieri mattina, durante l'imboscata; il netto foro di entrata del proiettile sulla tempia lo impressionò e dovette distogliere gli occhi. Li alzò verso lo Stelvio, che sembrava troneggiare indifferente nel cielo, immerso nella purezza delle nevi immacolate, mentre i suoi stivali affondavano nel sangue di quei ragazzi suoi coetanei, i cui sogni erano finiti a faccia in giù in quella fanghiglia tra le cacche di gallina. Avrebbe voluto urlare il nome di Mara a squarciagola, anche a rischio di essere falciato da una raffica di mitra: tanto meglio, pensò, almeno sarebbe stata la fine di tutto quel dolore così assurdo. Un rumore attirò la sua attenzione. Si girò e, vedendo un militare che stava uscendo dalle latrine, si nascose dietro a un carro pieno di fieno. Stefano si allacciò i pantaloni e, dopo essersi sistemato la giacca, cercò il pacchetto di sigarette nelle tasche. Riconoscendo il suo amico, Yael uscì dal nascondiglio e gli corse incontro. Allarmato dal rumore dei passi, Stefano mise mano alla Beretta. «Dov'è Mara?» urlò l'ebreo. Vedendo che era soltanto Yael, Stefano abbassò la pistola: «E tu, che ci fai qui?» gli chiese, ma l'ebreo sembrò non aver neppure sentito la sua domanda. «Dov'è?» gridò, afferrandolo per il bavero. Stefano distolse lo sguardo, ma Yael ripeté ancora una volta l'unica domanda che ancora gli dava la forza di tenersi in piedi: «Dimmi dov'è ...» piagnucolò, stringendo la giacca del suo amico. Il fascista rimase ancora in silenzio; preso da un moto di rabbia, il giovane pianista provò a colpirlo con un pugno, ma il suo colpo fu così flaccido che Stefano, intercettandolo senza problemi, lo bloccò nel palmo della propria mano e gli torse il braccio. Yael cadde in ginocchio, aggrappandosi ai pantaloni di Stefano. Chiuse le palpebre. Non riusciva nemmeno a piangere. Urlò come se fosse improvvisamente impazzito; poi, pregò solo di morire lì, adesso, subito. «Te ne devi andare» gli ordinò Stefano, senza scomporsi; tirato fuori il pacchetto di sigarette, ne offrì una all'ebreo. Yael riaprì gli occhi. I monti attorno a lui ondeggiavano come se si fosse trovato sopra una barca in tempesta, le tempie gli pulsavano e faticava a respirare; provò a prendere la sigaretta tra le dita, ma le mani gli tremavano troppo per riuscire a fumare. Stefano lo strattonò per riportarlo alla realtà. «Tra poco arriveranno gli artificieri per far brillare questo posto» gli spiegò, cercando di aiutarlo ad alzarsi «non sei lontano dal passo dello Stelvio: in un paio di giorni di cammino potresti arrivare in Svizzera.» Yael barcollò come un ubriaco. Che cosa aveva appena detto? Non riusciva nemmeno a trovare l'equilibrio necessario per stare in piedi e quello che cosa gli aveva proposto? Di arrivare camminando in Svizzera? Stefano si accorse dello stato confusionale dell'ebreo. Alzò il braccio. Lo schiaffo echeggiò come una fucilata, ma sortì l'effetto sperato: massaggiandosi la guancia arrossata, Yael tornò presente al mondo circostante. Stefano prese dal suo zaino delle razioni di carne in scatola e cioccolato; «non è molto, ma dovrebbero bastarti» gli disse, poi indicò le cime delle montagne: «Riconosci lo Stelvio?». Yael lo guardò come inebetito, e scosse la testa in segno di diniego. «È quella cima più brulla delle altre» disse Stefano, stringendogli una mano attorno al braccio «con un prolungamento che assomiglia a un altopiano innevato.»

 «La vedo» rispose Yael

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 «La vedo» rispose Yael. «Vai sempre dritto fino a essa e ti ritroverai in Svizzera» gli spiegò Stefano, ma l'ebreo lo guardò come se stesse delirando. Al che, Stefano gli puntò contro la Beretta: «Vattene ora» gli intimò «te ne devi andare». Sotto la minaccia dell'arma, Yael guardò smarrito la cima all'orizzonte. Non riusciva ancora a credere a quello che stava succedendo: proprio lui, che fino a qualche settimana fa si sarebbe lamentato a scendere in cucina per prendere una tazza di tè, adesso avrebbe dovuto valicare un passo alpino? Stefano gli voltò le spalle per rientrare in casa: iniziava a fare un po' troppo freddo per i suoi gusti. «Che cosa è successo ai miei genitori?» urlò Yael, allungando una mano verso di lui. Attorno a loro vorticavano le foglie alzate dal vento: il cielo si stava annuvolando e sentirono qualche goccia di pioggia sui capelli. Stefano si fermò davanti alla porta della malga, senza parlare. «Che cosa è successo?» chiese ancora Yael «me lo devi dire!» Stefano abbassò gli occhi. «Non ho potuto fare nulla per loro» rispose quasi sottovoce «non sono riuscito a fare niente per nessuno.» L'ebreo sentì il suo cuore spezzarsi come vetro infranto: le lacrime presero il sopravvento e Yael non lottò più per trattenerle. Scappò verso il sentiero di montagna, piangendo, ma era quasi un pianto liberatorio perché adesso non provava più nulla: dentro di sé il suo cuore era appena diventato un pezzo di ghiaccio, freddo come le cime innevate verso cui stava correndo.


🎹Spazio autore🎹

Yael (יעל) in ebraico significa "capra di montagna" o, secondo alcuni, "camoscio" . Nella tradizione ebraica, il nome di una persona ne contiene in qualche modo il destino, anche se alla prima impressione il suo significato non sembra avere alcuna attinenza con la vita che quell'individuo conduce. Solo con il dipanarsi del proprio karma, una persona arriva a fronteggiare il senso profondo insito nel proprio nome, proprio come Yael, dopo aver trascorso la maggior parte dei suoi giorni come un pigro dandy, ora si trova a dover correre e arrampicarsi su impervi sentieri di montagna...
Nel suo significato più profondo, Yael contiene anche il senso di ascesa spirituale.

I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora