Capitolo 13

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Yael rimase a lungo tra quelle braccia, con i capelli appoggiati al petto del maestro, anche se i bottoni di metallo del panciotto sotto la sua guancia erano freddi e gli davano fastidio. Dopo che la sua anima si fu ristorata grazie a quel contatto familiare, Yael si ritrasse, asciugandosi una lacrima: adesso il brontolio del suo stomaco aveva preso il sopravvento e aveva un bisogno più impellente da soddisfare. «Hai fame?» gli chiese il vecchio maestro. «Sì,» rispose Yael: non mangiava da giorni e il rumore della sua pancia vuota era stata l'unica cosa a tenergli compagnia durante le ore trascorse segregato in quell'abisso di angoscia. Mentre il maestro tirava fuori dalla tasca dei pantaloni una tavoletta di cioccolato, il giovane ebreo notò gli sguardi invidiosi che alcuni tra gli altri prigionieri gli stavano lanciando, come se quel pezzetto di dolce, fino a ieri nulla più di un capriccio che avrebbe potuto banalmente soddisfare aprendo la dispensa, ora fosse diventato un lusso, rimasto accessibile solo a un'elite di pochi privilegiati. A tanto si era arrivati, pensò demoralizzato Yael. Pensò al fatto che, in fondo, la sua coraggiosa uscita non gli aveva fruttato altro che il trasferimento da una prigione a un'altra, anche peggiore. Almeno qualcosa ho fatto, però, pensò il ragazzo, e fece spallucce. Nessuno avrebbe potuto accusarlo di vigliaccheria, visto il coraggio con cui si era gettato per strada in pieno sole. La fame poi vinse ogni riflessione esistenziale e, abbandonato quell'ozioso giro di pensieri, Yael si mise a mordere avidamente quella tavoletta fondente che teneva tra le mani; si sentì però in dovere di abbassare gli occhi di fronte allo sguardo d'odio con cui lo trafisse una madre, che era rimasta senza cibo per il proprio bimbo, addormentato tra le sue braccia. Yael e il suo tutore cercarono un angolo appartato in cui discutere tranquilli, spintonando per spostarsi tra gli altri prigionieri maleodoranti e lottando contro la nausea a causa delle zaffate rancide che salivano al loro naso. Ovunque, però, la calca tornava a pigiarli come se fossero dentro a una scatola di sardine e il rumore era così incessante che presto abbandonarono ogni tentativo di ritagliarsi un po' d'intimità e si rassegnarono a cercare di capirsi come facevano gli altri prigionieri, ossia alzando la voce più dei loro vicini e ricorrendo a un abbondante gesticolare. Il vecchio maestro raccontò a Yael dell'irruzione compiuta dai militari a casa sua e di come quegli animali l'avessero poi trascinato qui senza troppi complimenti. L'ebreo ascoltò spaventato il racconto dell'arresto del suo maestro, sprofondando in un abisso di angoscia. «Che cosa ne sarà di noi?» chiese disperato Yael, mentre sentiva quasi il fiato mancargli a causa del calore insopportabile che emanavano tutti quei corpi stipati come se fossero bestie. «So che alcune persone sono state caricate sui treni» rispose il maestro «ma non so dirti dove le abbiano portate.» All'improvviso, un insopportabile tanfo salì alle narici del ragazzo: un vecchio si era accovacciato per terra e stava facendo i suoi bisogni sul pavimento della stanza; Yael chiese al maestro di spostarsi, ma il professore gli fece un cenno di diniego con la testa: «Dopo una mezza giornata ti ci abitui subito» commentò cinicamente. Non riuscendo a tollerare oltre quel fetore, il raffinato ebreo si scostò, tappandosi il naso. Avrebbe voluto avvicinarsi ai finestroni per cercare di respirare un po' di aria pulita, ma la folla attorno alle finestre era impenetrabile e nessuno cedeva neppure di un millimetro dalla propria posizione privilegiata. Il maestro si appoggiò a una vecchia tavola da mensa ricoperta di graffi; Yael gli chiese se sapesse qualcosa dei suoi genitori, ma quello scosse sconsolato la testa. «E Mara?» chiese il giovane, fremendo per l'ansia. All'inizio, il maestro sembrò non aver capito la domanda, poi si ricordò di quell'allieva svogliata. Ah, la gioventù, pensò, che meravigliosa ingenuità: questo ragazzo rischiava di morire, ma nulla sembrava più importargli di fronte al pensiero della ragazza di cui era innamorato. «Non ne ho idea, mi dispiace» rispose il maestro «perché, pensi che sia in pericolo?» Yael cercò tra i visi ammucchiati nello stanzone il volto della ragazza che amava, senza trovarlo, e si sentì più sollevato: forse Mara era riuscita a scappare prima dell'inizio delle retate. «Come procede lo studio della "Patetica"?» gli chiese a bruciapelo il maestro. Lo studente sembrò cadere dalle nuvole, come se non riuscisse a credere a quello che aveva appena sentito. Di fronte a quella tragedia, l'ultimo dei suoi pensieri adesso avrebbe potuto essere l'esame del conservatorio. «Come ...» balbettò Yael, colto di sorpresa «non capisco ...» Il maestro scosse la testa con un'espressione seria. Come se la situazione in cui si trovavano, non avesse in fondo importanza a confronto della loro alta missione artistica, il maestro continuò a fargli domande sui progressi compiuti con lo studio della partitura per l'esame: «Sei riuscito a sistemare quel passaggio tra la scala e gli accordi due ottave sopra che con la mano destra ti veniva così difficoltoso?». Il giovane pianista lo guardò come inebetito, senza riuscire ad aprire bocca. «Figliolo» iniziò greve il maestro, con il tono di voce che usava di solito per fare le sue ramanzine «non devi lasciare che questi avvenimenti politici ti distolgano dai tuoi esercizi.» Accorgendosi che Yael lo stava fissando come un pesce lesso, il maestro lo afferrò per un braccio. «Le ideologie politiche sono solo cacca di cani» lo incalzò «il marciapiede ti sembra tutto sporco, ma dopo che il primo acquazzone è passato, non ne è rimasto più niente.» Soddisfatto di avere catturato l'attenzione del suo allievo con quella metafora ardita, il maestro allentò la presa. «Invece, l'arte è come la pietra portante di una cattedrale: tutto quello che costruisci su di essa, rimane per sempre e nulla lo può spazzare via.» Il giovane studente ascoltava affascinato i ragionamenti filosofici del suo maestro, quando il portone della camerata si aprì fragorosamente, e il maestro si distrasse, interrompendo il discorso. Un militare trascinò una giovane donna incinta dentro la stanza. La puerpera urlava e scalciava mentre il soldato tentava in ogni modo di tenerla ferma, stringendola per i fianchi; con un brusco scatto, però, la giovane infilò le unghie nella guancia del fascista, che gridò per il dolore. Un altro militare irruppe nella stanza; Yael sobbalzò, riconoscendolo: era il suo vecchio amico. Stefano, però, non sembrò accorgersi della sua presenza e corse verso la mamma che, isterica, stava riempiendo di sberle la malcapitata guardia; afferrata la donna per un braccio, Stefano la spinse lontano dal soldato, scaraventandola sul pavimento senza troppi complimenti. «Che rottura di scatole!» esclamò il fascista, mentre la puerpera si abbandonava a un pianto disperato. L'altro militare si tamponò il sangue che colava dalle guance graffiate, e Stefano si voltò per uscire dallo stanzone, quando con gli occhi incrociò lo sguardo del giovane ebreo. Non fece però in tempo a rivolgerli nemmeno un cenno, che il maestro di pianoforte gli si parò davanti, bloccandolo: «Le sembra questo il modo di trattare una madre, giovanotto?» lo rimproverò, per nulla intimorito dalle loro armi. L'altro militare lo guardò allibito e, ancora nervoso per la scenata appena sopportata, non riuscì a frenare uno scatto d'ira: «Ma che cosa vuoi, vecchio imbecille» esclamò e, alzato il fucile, colpì con il calcio dell'arma la testa del maestro, che cadde scomposto sul pavimento, come un burattino cui avessero improvvisamente tagliato i fili. Yael urlò; Stefano fece come per avvicinarsi in suo aiuto, ma il suo compagno lo afferrò per un braccio: «Andiamo fuori di qui» ordinò il soldato «o faccio una strage» e, tenendo il fucile puntato contro i prigionieri, uscirono dallo stanzone. Yael porse il braccio al suo tutore per aiutarlo a rialzarsi, ma il maestro non accennò a sollevarsi. Chinandosi su di lui, il giovane studente vide che dai capelli sulla testa colava a fiotti del sangue. Provò a scuoterlo, ma il maestro non accennò a rispondere. Sembrava privo di sensi: Yael avvicinò il viso alla sua bocca, per controllare se stesse respirando, ma non sentì nessun alito scaldargli la pelle. Gli prese il polso con una mano e si accorse che non c'era più battito. Scattò in piedi gridando. Fu come se una pugnalata gli avesse trafitto la pancia: non riuscì a frenare le lacrime che gli presero a sgorgare dagli occhi. «È morto!» esclamò, cercando lo sguardo della giovane mamma che il maestro aveva cercato di difendere; la donna però era impegnata a massaggiarsi la pancia e non lo degnava neanche di un'occhiata. 

I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora