Capitolo 9

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Quando aprì gli occhi nella camera in penombra, Mara sentì il cuscino bagnato contro la sua guancia e si ricordò di cosa fosse successo: era tornata a casa e, turbata da quell'incontro, aveva trascorso il pomeriggio gettata sul suo letto a piangere, per poi cadere addormentata. Dopo essersi svegliata, guardò l'orologio appeso alla parete, e si accorse che era quasi ora di cena. Fino a qualche tempo fa, in questo momento della giornata, sarebbe stata sulla veranda del Bar Impero insieme a Stefano, lei a sorseggiare una gazzosa, lui con l'immancabile bottiglia di Peroni e la sigaretta tra le labbra. Si sedette sul lenzuolo e sbadigliò. Aveva pianto tanto, ma ora non sapeva neppure lei perché. Era stata solo la sensazione di un attimo, sufficiente, però, a scatenarle quella tempesta nell'anima. Si chiese, però, che cosa fosse successo di così grave. Anche se non riusciva a smettere di pensare all'accaduto, il suo carattere solare ebbe infine la meglio, e Mara decise che si era già pianta addosso abbastanza, Scese dal letto e appoggiò i piedi nudi sul tappeto, un po' intontita. Sciacquatasi la faccia con l'acqua nel catino, scese le scale. A mente lucida, dopo quel provvidenziale riposo, cercò di razionalizzare l'accaduto: sì, il giovane fascista le era sembrato troppo freddo nei suoi confronti ma, in fondo, che cosa significava? Stanco per il lungo viaggio, teso per dover incontrare il prefetto e altre cariche importanti, magari si era solo sentito agitato per dover parlare con loro e non aveva avuto certo tempo di pensare a lei. Mara si rasserenò. Doveva essere andata proprio così, non c'era altra spiegazione. Attraversando le aiuole del giardino, si sentì più sollevata: era stata proprio sciocca a lasciarsi impressionare dall'emotività ed era sicura che, al loro prossimo incontro, le cose sarebbero tornate come prima e si sarebbero riabbracciati felici. Corse verso il Bar Impero, sperando di trovarlo lì, come ai vecchi tempi, come se nulla fosse mai successo e la vita avesse ripreso a scorrere con le solite abitudini. Nonostante l'ora, il sole era ancora alto ma, fortunatamente, alcune nuvole avevano rinfrescato il pomeriggio. Il viale era pieno di gente che mangiava un gelato o passeggiava con il cagnolino al guinzaglio. Una pattuglia piantonava il sagrato, ma i militari sembravano più interessati a godersi il sole estivo piuttosto che controllare il via vai sotto i portici. Mara si fermò sotto gli ombrelloni del bar sognando a occhi aperti il viso del giovane uomo che amava, lasciandosi trasportare dai ricordi felici di tutte le giornate trascorse. Cercò tra i capannelli di soldati e il cuore, all'improvviso, le balzò nel petto. Scorse il viso di Stefano ed esultò, sentendosi al settimo cielo; però, non fece in tempo a corrergli incontro per salutarlo perché un gelo mortale calò su di lei: Mara si era accorta che lui non era solo. Seduta con Stefano al tavolino sotto la veranda, c'era una giovane ragazza, su per giù della loro stessa età, con il viso nascosto da un cappello a fesa larga; indossava un'elegante gonna in lino ricamata a fiori, proprio simile alla sua che gli piaceva tanto, e un pudico maglioncino di cotone. Mara camminò come ipnotizzata verso la coppietta, osservandoli incredula mentre chiacchieravano amabilmente. Con la testa voleva fuggire da lì gridando, ma il suo corpo procedeva a lenti passi verso Stefano e la sconosciuta, come un condannato a morte che stesse salendo sul patibolo. Mara si fermò davanti al loro tavolo, senza sapere che cosa dire. Notandola, la ragazza seduta di fronte a Stefano smise di parlare e sollevò lo sguardo. Mara non riuscì neanche ad accennare un saluto e rimase in silenzio, sentendosi una perfetta stupida. Fortunatamente, il giovane militare ebbe i riflessi abbastanza pronti da improvvisare dei convenevoli per rompere l'imbarazzo. Mara fu così presentata alla figlia minore del prefetto e si presentò, biascicando a fatica delle frasi di circostanza. La nuova amica di Stefano la invitò a sedersi con loro, ma Mara sentì che il dolore nel petto stava diventando insopportabile, come se avesse avuto un chiodo conficcato nella carne: si accomiatò con una scusa, desiderosa solo di nascondersi nell'angolo più deserto del parco per abbandonarsi a un pianto senza fine. Voltò loro le spalle appena in tempo, prima che le lacrime iniziassero a scenderle copiose sulle guance e corse lontano dai tavolini del bar. Le sembrò di sentire la voce di Stefano che la chiamava, ma ora non aveva più importanza: scappò tra i gelsi del parco, passando accanto alla panchina dove loro due si erano abbracciati per interi pomeriggi. Tutto trasudava di ricordi e il viso del ragazzo sembrava essere stampato ovunque: il dolore era insostenibile e Mara si sedette sfinita, abbandonandosi al pianto. Ogni momento passato con Stefano le sfrecciò davanti agli occhi umidi: dal pomeriggio in cui, per la prima volta, si erano parlati fuori da messa fino alla sera dell'ultimo bacio, rubato davanti al binario da cui era partito quel maledetto treno. Mara pianse per non avrebbe saputo dire quanto tempo, fino a quando non le sembrò di sentirsi osservata. Istintivamente, riacquistò il controllo sulle sue emozioni. Si asciugò le guance e sollevò gli occhi: fermo a qualche passo dalla panchina, vide Yael, che la stava guardando in silenzio. «Da quanto tempo sei lì a divertirti?» gli chiese Mara. «Non mi stavo divertendo per niente» fu l'asciutta risposta del giovane ebreo. «Lo so, scusa» rispose Mara, cercando di smettere di singhiozzare, e lo invitò a sedersi sulla panchina «ho avuto un attacco di malinconia» spiegò, cercando di minimizzare l'accaduto «tutto qui, non so neanche perché.» «Ti ho visto al Bar Impero» rispose Yael, sedendosi accanto a lei. Mara pensò che mai come in quel momento sarebbe voluta sprofondare sottoterra. Non solo per essere stata smascherata subito, ma perché si vergognava che qualcuno avesse assistito alla patetica sceneggiata di cui era stata l'imbarazzante protagonista. «Vuoi che ti accompagni a casa?» le chiese l'impacciato ragazzo, incapace di liberarsi dal suo ruolo di fedele cavaliere servente. «Sì, volentieri» rispose Mara, che ora non aveva nessuna voglia di rimanere sola. Si alzarono dalla panchina e si incamminarono lungo il viale alberato. Yael avrebbe voluto tempestare l'amica di domande ma, come al solito, intimidito dalla sua bellezza, si ritrovava incapace di intavolare una discussione. Mara, dal canto suo, era ancora immersa nel dolore del suo cuore lacerato e non aveva nessuna voglia di parlare. La camminata procedette perciò in un religioso silenzio, come se fossero stati un frate e una suora che passeggiassero nel chiostro di un convento. Arrivando sotto il palazzo, Mara all'improvviso sembrò riemergere dai suoi pensieri: «Vuoi salire da me per una gazzosa?» gli chiese, temendo di essersi comportata troppo da maleducata; il timido ebreo annuì, inebetito, e la seguì docile come un cagnolino lungo le scale. Quando Mara aprì la porta, sua madre si stupì al vederla rientrare in compagnia di un'altra persona, ma dal suo rossore intuì che doveva essere successo qualcosa e non fece commenti. Il ragazzo salito con sua figlia la salutò educatamente e lei lo riconobbe subito: era Yael, il figlio della gallerista di via Dante, uno degli studenti che frequentavano il corso di musica con Mara. Era un bravo ragazzo, non molto sveglio, anche se aveva ottimi risultati a scuola, e la madre di Mara si rassicurò. Chiese loro se volessero bere qualcosa di fresco, e li invitò a sedersi sul dondolo in terrazzo per godersi il pomeriggio estivo. Mentre sua madre entrava in cucina per portare loro un vassoio con una caraffa di limonata, Mara e Yael iniziarono a dondolarsi pigramente sul dondolo, rapiti dal profumo delle rose che inondava il terrazzo. Curiosando con lo sguardo, Yael intravide, dal vetro del balcone, il pianoforte su cui Mara si esercitava: era un modello verticale a muro, incastonato tra due librerie talmente cariche di libri che sembravano stare per rovesciarsi da un momento all'altro.

I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora