Capitolo 20

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Yael si svegliò di soprassalto. Il partigiano che lo aveva aiutato ieri a camminare gli stava scuotendo la spalla, mentre fuori dalla finestra iniziava ad albeggiare. «Sei pronto?» gli chiese il soldato, porgendogli una stecca di cioccolato «ti offrirei anche un caffè, ma l'abbiamo finito ormai da settimane.» Dopo essersi alzato ancora mezzo addormentato, il giovane ebreo scese le scale dietro al partigiano, divorando avidamente il cioccolato come se non stesse mangiando da giorni. Usciti all'aperto, trovarono i soldati che fumavano, parlando di donne appoggiati a una staccionata. Il capo dei partigiani lo vide mentre, come un bambino, si stava leccando le labbra sporche di cacao e, girandosi verso di lui, decise che era giunto il momento di dare una lezione a questo idiota. «Ieri notte mi sono fatto proprio una grande scopata» esclamò, fissandolo negli occhi «me lo sono fatto leccare per bene prima di venirle in bocca.» Gli altri due soldati risero, ma l'ebreo sentì il cuore lacerarsi come se gli stessero passando un coltello tra le costole; la dolcezza del cioccolato appena mangiato si trasformò in un fiele velenoso che sembrò bruciargli lo stomaco, con un dolore così insopportabile che il suo volto si deformò in una smorfia allucinata. Il capo dei partigiani se ne accorse: «Tutto bene?» gli chiese, con aria soddisfatta. Yael dovette fare un profondo respiro, prima di rispondere. «Sì, devo aver avuto un leggero giramento di testa» rispose, con ancora le farfalle nello stomaco. Voleva anche fare il duro, pensò il capo dei partigiani con disprezzo; adesso, l'avrebbe sistemato lui per le feste. «Sei pronto all'azione, eroe?» gli chiese, dandogli l'ennesima pacca sulla spalla, così forte che quasi lo fece ruzzolare per terra. Yael fece per rispondergli, ma quello accelerò il passo, senza stare ad ascoltarlo: «In marcia!» urlò e i soldati, tirata l'ultima boccata alla sigaretta, gettarono i mozziconi sotto gli stivali per mettersi in cammino. Il gruppo iniziò a marciare compatto nell'alba nascente, ripercorrendo il sentiero che avevano fatto tra i boschi ieri, quando l'avevano condotto dal luogo dell'agguato al loro nascondiglio. Il sottobosco era ancora imperlato di rugiada, mentre sulle foglie degli alberi la brina scintillava riflettendo i primi raggi del sole mattutino. Camminarono ascoltando solo il rumore degli stivali sopra le foglie quasi per un'ora, fino a che non arrivarono ai resti di una vecchia cucina da campo.

 Camminarono ascoltando solo il rumore degli stivali sopra le foglie quasi per un'ora, fino a che non arrivarono ai resti di una vecchia cucina da campo

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 «Tre minuti di sosta» ordinò il capo dei partigiani. Un soldato si appostò di guardia mentre un altro ribelle si mise dietro un albero a fare i suoi bisogni. Yael si appoggiò sfinito a un tavolo in pietra. La camminata gli aveva prosciugato ogni forza vitale; inoltre, non si era ancora ripreso dalla fatica di ieri perciò si chiese preoccupato come avrebbe fatto a tornare al nascondiglio. Si asciugò il sudore dal collo, massaggiandosi le cosce doloranti. Gli sembrò di stare pagando ora tutte le giornate sedentarie, trascorse a leggere e suonare mentre i suoi amici si rincorrevano dietro a un pallone o facevano a botte nel prato. Yael vide delle more e si chinò per raccoglierle, ma non fece in tempo a prendere nemmeno uno di quei dolci frutti perché una mano si strinse sulla sua spalla. «Stai giù!» gli intimò l'altro partigiano, obbligandolo ad abbassarsi dietro al cespuglio. Yael vide con la coda dell'occhio che anche l'altro soldato si stava nascondendo, acquattandosi sotto il forno arrugginito della cucina da campo, mentre il capo dei partigiani si era appostato alle loro spalle, dietro a un vecchio gelso tutto rinsecchito. Il partigiano tolse la sicura alla Beretta. Yael fece per domandargli qualcosa, ma il soldato lo zittì, guardandolo torvo. Una raffica di mitra echeggiò come un assordante tuono tra il bosco e un nugolo di proiettili si abbatté sulla cucina da campo; Yael si tappò terrorizzato le orecchie, accovacciandosi sotto la siepe. Il partigiano attese la fine del fuoco nemico, poi rispose scaricando tutte le munizioni della pistola tra i cespugli e anche il loro compagno aprì il fuoco. Mentre le pallottole sibilavano nella boscaglia, il capo dei partigiani vide Yael rannicchiato dietro alla macchia di sottobosco. Con tutta quella confusione, era un'occasione che non poteva lasciarsi scappare. Gli puntò il fucile dritto alla schiena e prese la mira: così, tutti avrebbero pensato che l'ebreo fosse stato colpito durante il tafferuglio. Un'altra raffica echeggiò vicinissima al loro nascondiglio. Alcune schegge di corteccia schizzarono via dal tronco contro di cui era appoggiato il capo dei partigiani, che si ritirò dietro all'albero, abbassando il fucile, in attesa del momento giusto per sparare a quell'infame. Improvvisamente, il capo dei partigiani si sentì girare la testa e digrignò i denti dal dolore. Barcollando, dovette appoggiarsi al tronco per non perdere l'equilibrio. Una fitta dolorosa gli bruciò all'altezza del fianco destro; si toccò la giacca con la mano sopra il fegato e la ritrasse umida e calda. Mentre osservava le sue dita sporche di sangue, il fucile gli scivolò sull'erba, e si accasciò contro il gelso crivellato dai proiettili. Il giovane ebreo sentì un grido accanto a lui. Si girò verso il suo compagno e si accorse che si era inginocchiato nel fango; si abbassò su di lui, cercando di prestargli soccorso, ma il soldato si dimenava come un cane rabbioso, urlando dal dolore con il viso insanguinato tra le mani. Spaventato, l'altro partigiano si alzò, cercando una via di fuga nella boscaglia, ma due soldati tedeschi saltarono fuori da un cespuglio, lanciandosi al suo inseguimento. Il partigiano si girò ed esplose alcuni colpi. La potenza di fuoco del suo vecchio 91, però, lo rendeva un giocattolo al confronto del K98 in dotazione ai nazisti: mentre cercava di ricaricare, una raffica di precisione gli spappolò il vecchio elmo, schizzando via brandelli di carne e capelli. Il partigiano si ribaltò a terra, urlando. Dopo essersi avvicinato a lenti passi, la SS si chinò su di lui, puntandogli la pistola alla tempia. Yael ascoltò l'eco del colpo secco e si rannicchiò dietro le fronde, pregando che i tedeschi non l'avessero visto. Una fitta gli bruciava nel braccio destro: abbassando lo sguardo, si accorse che anche la sua manica era sporca di sangue. Sentì delle urla e scorse le sagome di alcuni soldati correre nel bosco; sorpreso, gli sembrò di riconoscere il suono di una voce conosciuta: trovò il coraggio di sporgersi e vide Stefano, che teneva sotto tiro il capo dei partigiani. «Che cazzo avete fatto?» esclamò il fascista, sconvolto. Il capo dei partigiani si teneva una mano premuta sopra il fianco e, rantolando, cercava di rispondere. «Non erano questi ... i patti ...» mormorò. Scosso dai colpi di tosse, sputò sangue nel fango. «Avete ammazzato una SS!» lo accusò Stefano «sai quanto si sono incazzati adesso, quelli?» Il capo dei partigiani cercò di piagnucolare una risposta tra i tremiti, ma i suoi occhi si girarono all'indietro. Cadde tra le foglie come un sacco svuotato. Stefano toccò con la punta dello stivale il corpo ormai privo di vita. Sentendo una puzza acida salirgli alle narici, l'ebreo si guardò i pantaloni e si accorse di essersi orinato addosso; quando rialzò lo sguardo per chiamare Stefano, il suo vecchio amico non c'era più. Anche i soldati sembravano spariti e gli unici rumori che si sentivano tra gli alberi erano quelli dei passeri che svolazzavano, ancora agitati da tutto quel trambusto di urla e spari. Gli sembrò di essere rimasto solo in quell'angolo di boscaglia ma, invece di provare sollievo per essere sopravvissuto, appena riuscì a rimettere insieme tutti i pezzi di quanto era successo, un unico pensiero si accese nella sua testa: Mara. Se quella era una spedizione punitiva contro il nascondiglio dei partigiani, allora lei era in pericolo. Doveva tornare indietro per avvisarla di scappare. La ferita al braccio gli bruciava e cercò di tamponarla con la mano per fermare il sangue; poi, iniziò a correre, incurante del dolore e della stanchezza, giurando a sé stesso che si sarebbe fermato solo quando avesse visto Mara sana e salva. Saltò fuori dal bosco come una capra di montagna, senza preoccuparsi del rischio di venire crivellato da una raffica di proiettili e si lasciò alle spalle il cadavere del capo dei partigiani che si dissanguava tra i cespugli di more.

I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora