Capitolo 11

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Ancora incredulo per l'accaduto, Yael vagò tra le stanze della villa, trascinando i piedi come se pesassero più del piombo. Si strinse una mano sopra il cuore per non essere sopraffatto dalla disperazione, mentre, ogni tanto, il respiro gli veniva meno, come se avesse avuto un lenzuolo sulla faccia che impedisse all'aria di scendergli nei polmoni. Il torace gli pulsava di dolore, e il suo sterno sembrava come se fosse sul punto di esplodere. La casa piena di dolci ricordi adesso era fredda come un cimitero. In quelle stanze aveva coltivato prima gli spensierati giochi dell'infanzia e poi i dolci sogni dell'adolescenza, ma ora avrebbe solo voluto scappare da quelle mura su cui sembrava sceso come un infinito velo di tristezza. Yael rimase a fissare l'uscio, ma fu incapace di abbassarne la maniglia perché, ora, non riusciva più a fidarsi neppure della luce del sole. Non sapendo che cosa fare, Yael fuggì verso l'unico porto in cui avesse trovato rifugio anche nelle peggiori tempeste: salì nella stanza del pianoforte e si sedette allo sgabello. Ripescò dalla memoria partiture indelebilmente impresse grazie alle faticose ore di esercitazione e, quando le sue dita iniziarono a correre veloci sulla tastiera, sentì finalmente che il dolore alle tempie diminuiva. Sentì le spalle rilassarsi, mentre cercava di ricordarsi altre melodie, in modo da poter suonare senza alzarsi per recuperare gli spartiti: credeva, infatti, che anche una minima interruzione di quel flusso di note avrebbe potuto farlo impazzire. Riuscì a visualizzare quasi per intero la partitura della sonata di Chopin sentita in radio l'altro giorno e, con un raffinato arrangiamento armonico, sfumò il minuetto Mozartiano con cui le sue dita avevano esordito nell'attacco della nuova melodia: sentiva il disperato bisogno di confrontarsi con composizioni di difficoltà tecnica eccezionale in modo che l'estrema concentrazione richiesta impedisse alla sua mente di andare a rimuginare sui terribili eventi appena trascorsi. Il trucco sembrò funzionare e, per alcuni minuti, s'immerse nell'esecuzione musicale, come se la tragedia appena successa appartenesse a un romanzo d'appendice curiosato di sfuggita e poi abbandonato sullo scaffale; purtroppo, quasi a metà dell'esecuzione, ebbe un vuoto di memoria e le mani si paralizzarono a mezz'aria. Senza più sapere quali tasti premere per rimanere aggrappato a quel flusso provvidenziale, Yael cedette e il dolore esplose nel suo cuore, spezzandolo come se fosse un vetro mandato in frantumi da uno sparo: urlò, folle di sdegno, chiudendo il copri tastiera con un violento scatto. Rimase seduto sullo sgabello davanti al pianoforte, ansimando, con gli occhi fissi sul leggio vuoto. Senza la distrazione della musica, il fiume dei ricordi divampò inarrestabile: come se qualcuno avesse aperto una diga, la corrente mugghiò per straripare dagli argini, gettandogli in faccia le terribili immagini di quell'incubo. 

Non sarebbe mai riuscito a cancellare dalla memoria il viso di sua madre mentre la trascinavano fuori di casa, né le urla di suo padre mentre, incredulo, scalciava per liberarsi dalla stretta dei militari

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Non sarebbe mai riuscito a cancellare dalla memoria il viso di sua madre mentre la trascinavano fuori di casa, né le urla di suo padre mentre, incredulo, scalciava per liberarsi dalla stretta dei militari. Come per una divina misericordia, però, l'associazione di pensieri cambiò bruscamente strada e, davanti ai suoi occhi, si materializzò il sorriso di Mara, durante un pomeriggio di quando, da bambini, avevano giocato a nascondino con Stefano e gli altri compagni di scuola. Con il ricordo del viso infantile di Mara nel cuore, Yael non riuscì più a trattenere le lacrime e scoppiò a piangere. Singhiozzò, sentendosi una totale nullità. Si chiese a che cosa fossero serviti tutti quegli anni di studi e sacrifici, quelle nottate passate insonni a macinare scale su quel sadico strumento di tortura, per poi ritrovarsi impotente nel momento in cui invece le necessità degli eventi avrebbero richiesto una reazione decisa e immediata. Pensò al suo amico fascista: come nella peggiore vignetta di propaganda, di fronte alla sua prestanza fisica, Yael si sentì un povero decadente, simile a un mollusco che non avesse mai combinato nulla di valido nella vita. Avrebbe voluto avere tra le mani una spranga di ferro e potersi sfogare facendo a pezzi quello stupido pianoforte che gli aveva rovinato l'esistenza, trasformandolo, lui, un ragazzo promettente come tutti gli altri, in un introverso nevrotico: nulla più di un fascio di nervi che vibravano al minimo spiffero d'aria. Impotente, Yael cercò di sfogare la propria frustrazione prendendo a calci lo sgabello e tutto quello che gli capitava sotto tiro, fino a che il suo piede colpì il tavolino da fumo; urlò per il dolore e zoppicò attorno al pianoforte; poi, stremato, si lasciò cadere sul divano, sentendosi un patetico demente. Arrivò a pensare che l'unico vero dramma della giornata fosse che il fascista non lo avesse freddato con una revolverata perché quella era l'unica fine che avrebbe meritato una nullità come lui. Continuò a piangere, crogiolandosi nell'autocommiserazione, incapace di elaborare una strategia di reazione, fino a quando, sentendosi sfinito a causa delle emozioni esagerate della giornata, crollò addormentato sui cuscini inzuppati dalle sue stesse lacrime. Rabbrividendo, sognò che Mara fosse sdraiata accanto a lui. Le stava accarezzando il viso con una mano, anche se gli sembrava che ci fosse qualcosa di strano. Quel volto, di solito roseo e sorridente, adesso era freddo e pallido. Spaventato, Yael si accorse con orrore che un rivolo rosso colava dall'orecchio della ragazza. Cercò un fazzoletto per pulirle le gote, ma il sangue si rapprese all'istante, diventando nero come l'oscurità. Yael aprì gli occhi, madido di sudore. La stanza del pianoforte era immersa nel buio: aveva dormito fino a notte avanzata. Si alzò dall'ottomana frastornato, preoccupato per i suoi genitori. Accarezzò la scocca del pianoforte, ammaccata dai suoi pugni. Raccolse lo spartito della "Patetica" dal leggio e lo aprì, sfogliandolo lentamente. Si soffermò sui passaggi di maggior difficoltà tecnica e pensò ai mesi dedicati allo studio di quel pentagramma pieno di annotazioni. La musica era sempre stata presente nella sua vita: non riusciva a ricordarsi di un periodo della sua adolescenza in cui lezioni o esercizi di pianoforte non avessero segnato con cadenza quotidiana la stagione. Che fosse a giocare al parco con gli amici, oppure sul suo letto a leggere, il pianoforte lo richiamava puntualmente a sé, ogni tanto come dolce consolazione, ma la maggior parte delle volte come un capriccioso tiranno che volesse infliggergli qualche frustrante punizione, per il solo piacere di vederlo incatenato a quella tastiera tentando di eseguire tecnicismi di esasperante difficoltà. Quante giornate aveva passato faticando per riuscire a conciliare i già pesanti esercizi scolastici con le ossessive ripetizioni delle scale del "Clavicembalo ben temperato". Quante volte, finita la scuola, avrebbe voluto fermarsi al parco con Stefano e la sua combriccola, invece era stato costretto a tornare in fretta a casa per eseguire i quotidiani esercizi musicali. Ricordava ancora la mortificazione che aveva sempre provato quando doveva andarsene via, mentre i suoi amici rimanevano fuori a giocare a pallone. Pensò al dolore che l'aveva assalito quel giorno quando, voltandosi indietro, aveva visto Mara che, abbracciata a Stefano, regalava a quel teppista i primi baci per i quali lui aveva invano bruciato di desiderio. E ora, che cosa era rimasto di tutto questo? Aveva fatto tutti questi sforzi per compiacere i propri genitori, ma loro non c'erano più. Quanto era accaduto, gli sembrò incomprensibile e inaccettabile: era come se la realtà avesse deciso di irrompere violentemente nel tranquillo sogno a occhi aperti in cui la sua vita aveva fino ad oggi fluttuato, facendo a brandelli ogni sua certezza. Appena la mattina fosse sorta, che cosa avrebbe potuto fare? Stefano aveva parlato di leggi razziali. Che cosa significava? Che non poteva uscire dalla propria casa? Che l'avrebbero arrestato se avesse messo piede in strada? Non poteva credere che stesse succedendo realmente e, peggio ancora, proprio in quell'Italia in cui i suoi nonni si erano sempre dichiarati fieri di essere immigrati. Come ubriaco, il ragazzo scese le scale, entrando nel salone ancora in disordine a causa della colluttazione di ieri, con il divano rovesciato e libri e carte sparse ovunque sugli eleganti tappeti persiani. Yael raccolse i cocci di un vaso di ceramica cinese cui sua madre era affezionatissima. Si ricordava che, tutte le volte che, da bambino, aveva provato a giocarci o anche solo ad avvicinarsi troppo, sua madre immediatamente lo aveva fermato, rimproverandolo. E ora ne stava buttando i cocci nella spazzatura. Chissà come stava ora sua madre. Il pensiero dei suoi genitori lo angosciò, causandogli un'immensa tristezza. Gli sembrò tutto così assurdo. Forse il suo amico si sarebbe presto rifatto vivo e gli avrebbe spiegato come avrebbe dovuto agire. Ecco, la cosa più sensata gli sembrò aspettare l'evolversi degli eventi. Tanto, da solo, non aveva la minima idea di cosa fare per aiutare i suoi genitori e, cosa ancora più grave, sé stesso.

I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora