Capitolo 4

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All'ora di cena, la madre di Yael spalancò le finestre della sala da pranzo per fare entrare un po' di frescura serale. Seduto composto a capo tavola, con il tovagliolo sulle ginocchia, suo padre si stava lamentando di un problema che al lavoro si era verificato alla linea di produzione degli otturatori. Dondolandosi sulla sedia, Yael ascoltava svogliato, più attratto dal canto dalle cicale in giardino che dalle complessità tecniche della riflessione paterna. Felice per quel raro momento in cui poteva vedere la sua famiglia riunita a cenare insieme, sua madre appoggiò sulla tovaglia di lino la teglia di porcellana con il soufflé di zucca ancora fumante. Solo dopo averne tagliata la prima fetta, però, si accorse che davanti al ragazzo il piatto dei filetti di tonno era ancora pieno. Guardò suo marito con aria interrogativa: quel pesce piccante era sempre stato uno degli antipasti preferiti di suo figlio, che di solito lo divorava avidamente, spesso chiedendo di poterne avere una seconda razione. Suo padre, per tutta risposta, si limitò a fare spallucce: aveva altro a cui pensare e si stava chiedendo se la causa di quel guasto non potesse semplicemente essere un problema di lubrificazione. Yael si alzò da tavola, adducendo come scusa il bisogno di fare due passi a causa dell'afa. Anche se infastidita, sua madre cercò di non dare peso alla cosa. Ultimamente, vedeva suo figlio sempre più svogliato e lunatico, e temeva che questa sua stranezza fosse causata dalle ripercussioni che la guerra non mancava di avere anche sullo svolgersi della loro normale vita quotidiana. Aveva perciò deciso di abbassare un po' il suo vincastro, tollerando certi capricci adolescenziali che in situazioni normali avrebbero fatto scattare severe punizioni. 

«Cerca di non fare tardi» si limitò a dirgli, accarezzandolo sui capelli, anche se il cuore le si era riempito d'angoscia

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«Cerca di non fare tardi» si limitò a dirgli, accarezzandolo sui capelli, anche se il cuore le si era riempito d'angoscia. «Avrà litigato con la fidanzata» commentò suo padre, versandosi nel suo piatto la porzione di tonno avanzata. «Non dimenticarti le chiavi» urlò sua madre, ma Yael non la sentì perché era già corso fuori dalla veranda. Yael camminò a passo spedito verso la piazza della chiesa, con un unico pensiero in testa. Sotto i portici, alcuni negozi avevano ancora le saracinesche alzate perché, a causa del caldo, la gente usciva a fare la spesa solo all'imbrunire. Dentro la polleria, due massaie con le sporte piene di frutta e verdure chiacchieravano, attendendo che il garzone finisse di staccare a colpi di mannaia la testa a una gallina spiumata. Yael distolse lo sguardo dalla vetrina del macellaio e corse verso il Bar Impero: la sola cosa che gli importasse ora era di incontrare Mara e chiederle scusa per essersi comportato come un animale. Era nervoso e continuava a darsi dello stupido. Con un calcio restituì la palla a un gruppo di bambini che giocavano sul sagrato ed entrò nella caffetteria, facendosi largo tra i militari che fumavano in veranda. Mentre si guardava in giro, si sentì chiamare dal bancone: «Non trovi i tuoi amici?» gli chiese una voce. Yael si voltò e riconobbe Giuseppe, l'oste. Il giovane ebreo si limitò a fare un cenno affermativo con la testa. «Li ho sentiti dire che sarebbero andati in stazione» lo informò pazientemente Giuseppe. Non se la prese per il suo comportamento maleducato perché sapeva che quel ragazzino non era portato per le relazioni con gli altri. Yael non gli rispose, ma si limitò a pensare che fosse una faccenda strana: la stazione non era un posto che frequentassero spesso. Che cosa ci stavano andando a fare, si chiese, perplesso. Sperò che l'anziano oste non si fosse sbagliato. Uscì dal locale immerso nei suoi pensieri, senza nemmeno ringraziare, mentre Giuseppe lo osservava scuotendo la testa, e scese lungo il viale in mezzo al profumo dei gelsi, così forte in quella stagione da essere quasi irritante. Scavalcò la sbarra del passaggio a livello e camminò fino alla banchina dei treni. Non c'era nessuno. Le saracinesche della biglietteria erano abbassate e i piccioni tubavano pigramente sui binari. Ecco, il barista aveva capito male, pensò scocciato, proprio come aveva sospettato. Yael s'innervosì e scese nel sottopasso, attraversando la galleria con le mura piene di manifesti disegnati in stile futurista che inneggiavano all'impero. Deluso, si chiese dove potesse essere finita Mara. Sdraiato dietro un vagone abbandonato, Stefano vide l'amico correre giù dalle scale ma, avendo ben altre preoccupazioni in testa, non si preoccupò di chiamarlo. Tirò un'ultima boccata alla sigaretta che stava fumando e, gettato il mozzicone sul binario morto, lo spense schiacciandolo sotto la suola dello stivale. Singhiozzando, Mara gli appoggiò i capelli sulla spalla e Stefano la coprì con la sua giacca militare. «Non ti preoccupare» le disse per tranquillizzarla «è solo per qualche mese, poi potremo già rivederci.» Le parlò con tono rassicurante, anche se, in realtà, era proprio lui il primo a dubitare di quanto aveva appena affermato. Mara non riusciva a smettere di piangere: non era ancora in grado di farsi una ragione di quella decisione e sapeva che, l'indomani, per lei sarebbe stato l'inizio di una nuova vita, un po' più desolata e buia. Vedendola così affranta, Stefano le prese il viso tra le mani, asciugandole le lacrime. «È più forte di me, scusa» mormorò tra i singhiozzi Mara, cercando invano di controllarsi, ma non fece in tempo a finire la frase perché Stefano appoggiò le labbra contro le sue e le assaporò dolcemente, consapevole che quel bacio poteva essere l'ultimo che si sarebbero mai scambiati. «Andrà tutto bene» le sussurrò. Dalla scalinata salirono alcuni militari che andarono a sedersi su una panchina. Stefano li salutò con un cenno. «Che cos'hai detto ai tuoi genitori?» gli chiese Mara. «Non sanno nulla» rispose «non avrebbero mai capito che cosa significhi per me». Stefano scrollò la testa. «Loro pensano solo agli incassi del negozio; io, invece, ho bisogno di sentirmi parte di qualcosa più grande.» «Anch'io sono preoccupata» confessò Mara «mi sentirei più tranquilla se tu facessi un passo indietro: non sappiamo nulla di questa gente, in fondo, e tanti, anche se per paura non lo dichiarano apertamente, pensano che siano solo un gruppo di estremisti corrotti.» «Dovete smettere di agitarvi» rispose Stefano, infastidito «se uno vuole il cambiamento, deve essere innanzitutto disposto a mettere in gioco sé stesso.» «Sì, ma ...» cercò timidamente di protestare Mara «a me non pensi?» Stefano si rabbuiò. Fissò Mara negli occhi, lucidi a causa del lungo pianto. «Che cosa credi?» rispose «anch'io ci sto male» ammise «ma ci sono ideali che richiedono sacrifici.» Il rumore di una ciminiera che sbuffava vapore coprì i singhiozzi di Mara, mentre un treno apparve in fondo ai binari con un fischio stridulo. 

I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora