Capitolo 15

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Lasciandosi alle spalle la palazzina degli uffici logistici, Stefano obbligò Yael ad andare con lui al circolo degli ufficiali. Al passaggio del suo amico, alcune reclute scattarono sugli attenti, ma il fascista non se ne accorse nemmeno, impegnato com'era a dargli istruzioni. «Nella mensa dei graduati» gli stava spiegando concitatamente Stefano «c'è un palchetto con un vecchio pianoforte» gli disse mentre attraversavano il piazzale dell'alzabandiera «tu sei sempre stato un bravo pianista, lo sai ancora, no, come si suona quell'affare?» Il giovane ebreo camminava a passo spedito accanto al vecchio amico, ma si sentiva confuso perché non riusciva proprio a capire che cosa avesse in mente. Entrando nel circolo degli ufficiali, Stefano gli spiegò l'idea che gli era venuta per ingraziarsi il tenente Möller. Yael lo ascoltò impaurito, mentre faceva cenni di approvazione con il capo solo perché non si sentiva di essere nelle condizioni di protestare. Inoltre, se non aveva capito male, Stefano gli stava chiedendo di suonare ancora il suo amato pianoforte, e la semplice prospettiva di accarezzare ancora con le dita quella tastiera gli stava riempiendo l'anima di una struggente nostalgia. Stefano continuava a parlare, come se all'improvviso fosse diventato logorroico: sembrava in preda all'ansia, quasi che fosse intimidito da questo ufficiale che lui avrebbe dovuto intrattenere con la sua musica. Appena realizzò tutte le implicazioni di quello che Stefano gli stava proponendo, Yael sentì come se un macigno gli stesse appesantendo il cuore. Dopo tutti i sacrifici e gli studi compiuti, ora trovava umiliante l'idea di dover ridursi a fare da imbonitore in una sala mensa. Chissà che cosa avrebbe pensato il suo vecchio maestro di musica. Se lo avesse saputo, si sarebbe di sicuro rigirato nella tomba. Tormentato da questi pensieri, Yael aprì la porta del circolo degli ufficiali, ritrovandosi dentro una specie di teatro dismesso con le mura che stavano cadendo a pezzi. Un immenso lampadario a gocce di cristallo oscillò in modo inquietante, mentre camminavano con gli stivali che facevano scricchiolare il parquet. Finalmente, arrivarono davanti al piccolo palco in fondo alla sala mensa, e Yael alzò lo sguardo al vecchio pianoforte a coda che Stefano gli aveva appena descritto. «Non sei contento?» gli chiese Stefano, accarezzando la scocca dello strumento, «suonare non era forse la cosa che desideravi maggiormente, più della tua stessa vita?» Il giovane pianista rimase in piedi, immobile, come pietrificato, e non accennò a sedersi alla tastiera. Infine, forse solo aiutato dalla lunga confidenza che c'era stata in passato con quello che ora era uno dei suoi aguzzini, trovò il coraggio di protestare: «Io non sono il vostro giullare di corte» commentò sdegnato a bassa voce, incapace di dominare la sua verve che lo portava sempre a dire la cosa sbagliata nel momento peggiore. Stefano lo guardò storto. Non aveva nessuna voglia di perdere altro tempo e alzò il braccio come per tirargli un pugno. Con un fulmineo riflesso, però, riuscì a fermarsi appena in tempo. Pensò che tra qualche minuto il colonnello sarebbe entrato da quella porta, in compagnia del tenente Möller, e che non aveva proprio niente da guadagnare a fargli trovare l'unico artista che aveva tra le mani pieno di lividi. Decise perciò di provare a convincerlo prima con le buone. «Non preferiresti passare le tue giornate a suonare questo pianoforte, piuttosto che pulire le latrine della caserma?» gli chiese Stefano con ton gentile, cercando di mostrargli che aveva solo tutto da guadagnare dalla sua proposta. Yael, dal canto suo, stava fremendo di rabbia e si sentiva incapace di decidere, sia per il sì che per il no. La musica gli mancava come l'aria, ma quel pianoforte stava risvegliando nel suo cuore un abisso di ricordi troppo dolorosi. Il viso di Mara e del suo maestro avevano iniziato a danzargli davanti agli occhi come dei fantasmi, e sentì gli occhi inumidirsi di lacrime. Stefano si accorse, esasperato, che il vecchio amico era incapace di riemergere dal suo solito mondo dei sogni, e decise di averne abbastanza di tutta quella tenerezza. Gli sferrò un pugno in pancia al che, urlando, l'ebreo si piegò per la violenza del dolore improvviso, e si accasciò senza fiato sul tappeto. Al bancone del circolo, il barista stava lavando una tazzina, mentre un altro soldato stava indossando la divisa da cameriere. Entrambi sentirono il rantolo di dolore del giovane pianista me evitarono accuratamente di guardare nella direzione di Stefano. «Allora, ti vuoi svegliare o no?» gli gridò Stefano, sollevandolo di peso «non mi ci vuole niente per rendere la tua vita qui dentro un inferno, lo capisci, sta solo a te deciderlo.» Stefano si girò verso il barista e gli fece cenno di preparare un caffè per l'ebreo. Gli sistemò i vestiti, poi gli pettinò i capelli, rimettendogli a posto la riga. Yael si portò alle labbra la tazzina, con la mano ancora tremante per lo spavento. «Suona quella maledetta musica» gli intimò il fascista. Come ipnotizzato, il giovane ebreo si accostò al pianoforte, camminandogli attorno come un malato di vertigini appena affacciatosi su uno strapiombo. Accarezzò con la mano la tastiera, come se si trattassero dei capelli della donna che amava, e si sedette sullo sgabello. Arpeggiò delle veloci scale per verificare la qualità dell'accordatura e fece un cenno positivo con la testa. Sollevato, Stefano si accese una sigaretta. La sala del circolo degli ufficiali era ancora vuota, tranne che per un paio di graduati che erano entrati a bersi un caffè. Il cameriere stendeva le tovaglie bianche sui tavoli destinati al servizio ristorante, mentre il barista stava ritirando dei sacchi di pane fragrante appena sfornato. La porta del circolo si aprì e il colonnello entrò, seguito dall'ufficiale tedesco. Il tenente, magro e pallido, quasi anemico, si guardò intorno con un'espressione seccata in volto, scuotendosi della polvere invisibile dalla manica della giacca. Il colonnello si avvicinò a Stefano con uno sguardo stralunato, pensando che, se non fosse stato per quel diavolo di Asse, probabilmente a quest'ora avrebbe già piantato alla SS una baionetta nello stomaco. Il tenente Möller prese tra le dita il monocolo, pulendolo con il suo fazzoletto immacolato; dopo essersi passata una mano sui capelli impomatati, si raddrizzò il bavero della giacca e guardò in direzione del pianista. Yael, incrociando quello sguardo, sussultò. Il tenente era gracile come lui e, con quel volto così pallido, gli assomigliava come una goccia d'acqua: se non fosse stato per la divisa da SS che indossava, sarebbe quasi sembrato suo fratello gemello. Salvo, ovviamente, l'altra differenza più importante di tutte: il tenente incuteva timore a un'intera caserma di soldati, mentre a lui mettevano i piedi in testa persino i topi che sgranocchiavano i sacchi di grano della dispensa. Yael si fece scrocchiare le dita. Nonostante gli occhi di tutti fossero puntati su di lui, non trovò il coraggio di iniziare a suonare e le sue mani rimasero congelate a mezz'aria sopra i tasti. Davanti a questa sua nuova titubanza, Stefano sentì il sangue salirli al cervello. «Cos'altro non va, adesso?» gli sussurrò Stefano in un orecchio «ti avviso, non è proprio il momento di fare lo stronzo.» Trovandosi seduto ancora una volta davanti alla sua amata tastiera, il giovane pianista sentì il cuore stretto da un'invincibile malinconia, che gli riportò alla mente il ricordo dei suoi genitori, di Mara e di tutte le persone care della sua adolescenza. Quanto gli mancavano quegli affetti. Invece, in questo vecchio salone che puzzava di fumo, guardandosi intorno, si vedeva circondato solo da facce sconosciute e ostili. Stefano gli strinse la mano sopra la spalla: «Inizia a suonare» gli intimò «davvero, non ti conviene farmi perdere la pazienza». Incuriosito, uno dei graduati appoggiò la sigaretta che si stava godendo dopo il caffè e accennò a un applauso d'incoraggiamento. Come riportato alla realtà da quel battere di mani, Yael premette i tasti dell'accordo iniziale della "Patetica", lasciando a bocca aperta gli ufficiali per quell'improvvisa dolcezza che sentirono sprigionarsi nella sala: nessuno di loro poteva sospettare che la vita gli avrebbe concesso di provare ancora una volta un'emozione simile. Le mani di Yale iniziarono a rincorrersi nel veloce crescendo del primo movimento, per poi smorzarsi in un adagio struggente. Come stregati da un improvviso incantesimo, i soldati si accorsero di non riuscire più a pensare a nulla, e rimasero ad ascoltare in religioso silenzio quella melodia. Alla ripresa dell'accordo iniziale, l'ebreo sentì gli occhi inumidirsi di lacrime e dovette lottare per continuare a suonare senza abbandonarsi al pianto. Il viso di Mara gli passò davanti agli occhi lucidi mentre le dita della mano destra scendevano lungo la tastiera per incrociarsi con l'altra mano e riprendere con foga il virtuosismo della scala in minore. Si chiese dove fossero ora i suoi genitori. Il mignolo si allungò veloce a coprire un accordo di ottava, poi il pollice girò sotto il palmo per salire in modulazione: un passaggio provato a lezione per quasi un pomeriggio intero, con le dita slogate mentre il vecchio maestro lo correggeva con pazienza. Mentre suonava, Yael sentì sulle labbra il sapore salato delle lacrime che gli rigavano le guance, ma non si fermò, e le sue mani continuarono a volare sulla testiera, mentre i soldati ascoltavano come ipnotizzati la dolcezza feroce di quella cascata di dolore. Sfumato il ricordo dei suoi genitori, la foga delle scale ritornò alla malinconica melodia iniziale, dando agli ascoltatori la possibilità di riprendere fiato, anche se mai tregua fu più illusoria: fulmineo, l'esplosione del crescendo finale, come un colpo di cannone, tolse il respiro alla piccola platea. I mozziconi delle sigarette si spensero mentre i soldati ascoltarono rapiti l'adagio finale, intonato dal giovane pianista in lacrime, mentre il suo corpo fremeva e le sue dita sembravano avere deciso di non staccarsi più dalla tastiera, nonostante l'ultima nota stesse svanendo nel salone tornato silenzioso. I soldati si guardavano in faccia senza sapere cosa dire. Seduto su una seggiola con il viso nascosto tra le mani, Stefano si accorse che il colonnello lo stava cercando con lo sguardo. Si asciugò le guance con la manica della giacca e si avvicinò al suo superiore. «Da dove arriva questo fenomeno?» gli chiese sottovoce il colonnello. «E' una lunga storia» rispose Stefano, e si girò a guardare, con gli occhi pieni di ammirazione, in direzione di Yael. Non era, però, l'unico che in quel momento stesse osservando estasiato il giovane pianista ebreo. Come incantato da quell'esecuzione, il tenente Möller si accese una sigaretta, e si mise a fumare tirando delle boccate lente e rilassate, come se avesse appena finito di fare l'amore con una prostituta.


I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora