15 - Useless

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Doveva aver cominciato a piovere. Sentivo le gocce tamburellare sul tetto. Il rumore si espandeva per tutto l'edificio, echeggiando fra le pareti. Strinsi la presa sul manico del coltello e incisi un altro segno sul parquet. Il nome di Andrew prese forma sul legno, un po' storto e discontinuo. Lo fissai con odio per alcuni secondi. Poi alzai il coltello e lo piantai con tutta la forza che avevo al centro della scritta. Emisi un verso rauco. La pioggia lo coprì con il suo picchiettate insistente, ma Sarah lo sentì e si girò verso di me. Aveva uno sguardo spento. «Quella scritta non è una bambolina voodoo. Lui non sentirà dolore.»

«Ho bisogno di sfogarmi, in qualche modo» protestai. Estrassi a fatica la lama dal legno, per poi pugnalare ancora una volta il nome del nostro carceriere. Sapevo che era inutile, ma ogni colpo riusciva a togliermi un briciolo di rabbia dalle vene.

Sarah buttò la testa all'indietro, contro il muro alle sue spalle. Non ci eravamo spostate di molto dalla cantina. Una volta terminata l'adrenalina la ferita alla gamba e la caviglia slogata erano tornate a farsi sentire. Ero crollata subito dopo l'ultimo gradino. Sarah mi aveva trascinata poco più in là e poi ci eravamo arrese. Adesso, sedute nel bel mezzo del corridoio, attendevamo che giungesse un nuovo giorno senza reagire. Cosa potevamo fare? A sconfiggere Andrew avevo rinunciato già da giorni. Era impossibile trovarlo, anche ora che non aveva più telecamere per controllarci. Avevo sperato di metterlo in crisi, ma non aveva funzionato. Sembrava non trovarsi nemmeno in casa.

«Che ore sono, secondo te?» sospirò Sarah, riportandomi alla realtà.

Lasciai cadere il coltello a terra, dove rotolò fino a fermarsi. Lo fissai con amarezza. «Non credo manchi molto al mattino. Abbiamo sprecato l'unico giorno libero che avessimo per risolvere un indovinello a cui non avremmo mai potuto trovare una risposta. Avremmo potuto ignorare le parole di Andrew, a questo punto, e pensare invece a come portare quel mostro a fondo con noi.»

«Lo abbiamo fatto per salvare Charlotte. Non è stato uno spreco di tempo» replicò lei. Mi stava guardando di sbieco, come se non mi riconoscesse. Ma io ero sempre stata così. Ero sempre stata egoista. Era lei a non avermi mai visto davvero per quella che ero.

«Sì, e guarda come ci siamo riuscite alla perfezione» biascicai a mezza voce. Avevo un tono acido, ironico. Sapevo che non avrei dovuto utilizzarlo con lei, non ora che eravamo rimaste in due e lei era finalmente conscia di essere la prossima. Non volevo ferirla, ma era impossibile per me non farlo. Ero delusa, amareggiata e furiosa. Con Andrew, soprattutto, ma anche con me stessa. Mi ero promessa di non crederci, di non farmi ingannare dalla speranza, ma come tutte le altre volte ci ero ricaduta come una sciocca. Avrei dovuto essere più realista. A quel punto non ci saremmo trovate in una simile situazione.

Sentii Sarah alzarsi in piedi. Le sue scarpe strisciarono contro un tappeto scuro, poi un rumore di passi accompagnò la sua uscita di scena. Non la guardai andarsene. Tenni fissò lo sguardo sul coltello davanti ai miei piedi, mentre pensavo a come risolvere quella situazione di stallo. Sarah presto avrebbe smesso di rivolgermi la parola. È ciò che la paura fa alle persone: le mette una contro l'altra, perché nel momento del pericolo ognuno pensa a se stesso. Sarah sarebbe scomparsa il sesto giorno e la consapevolezza di ciò l'avrebbe resa una persona del tutto differente, così come si era mostrata nella stanza di Andrew, quando aveva desiderato di salvare Charlotte solo per non essere la prossima. Mi passai le mani sul volto fino ad arrossare la pelle. Ero stanca. Non chiudevamo occhio da quando Andrew ci aveva fatte svenire in infermeria. Avrei voluto dormire, ma il pacco sorpresa sarebbe potuto arrivare a momenti, una volta scattata la mezzanotte. Forse era già successo e ancora non lo sapevo.

Percepii un rumore strano, poco lontano da lì. Sembrava provenire dal salotto, ma non potevo esserne certa con il fragore del temporale a fare da sottofondo. Socchiusi gli occhi e rimasi in ascolto per alcuni minuti, in attesa di sentire ancora una volta il suono. Non accadde, ma al suo posto udii la voce flebile di Sarah mormorare alcune parole. Pareva terrorizzata. Mi misi subito in ginocchio, nel tentativo di alzarmi in piedi a dispetto delle ferite. Riuscii a farlo soltanto aggrappandomi alla parete. Zoppicai fino al salone, mentre la voce di Sarah ripeteva più e più volte la stessa frase. «Kay, vieni qui. Vieni qui, ti prego.»

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