4 - Misgiving

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Non riuscivo a dormire nemmeno quella notte.

Stesa sulla schiena, appoggiata alla dura consistenza del vecchio materasso, continuavo a rimuginare su ciò che era accaduto quel giorno, mentre fissavo come in trance il soffitto grigiastro della camera.

L'intonaco scrostato era decisamente disgustoso, dava al tutto un'aria malandata, malsana. Mi sembrava di essere rinchiusa in un manicomio, ogni giorno con più intensità del precedente. Anche ora, osservando quella patina bianco sporco staccarsi e penzolare a vuoto, rivelando la superficie lignea della struttura, sentivo il cuore contrarsi nel petto.

Per la rabbia, per la tristezza, per la solitudine.

Non capivo come fossi caduta così in basso da ritrovarmi costretta ad abitare in un luogo che odiavo con tutta me stessa, ma una cosa la sapevo: dovevo trovare un modo per andarmene.

Sopratutto ora che un presunto assassini sembrava avermi presa di mira.

Sbuffai e mi tirai a sedere, incollando le spalle al muro dietro al letto. Sentivo il freddo scaturire da quel contatto e penetrare attraverso il tessuto leggero della mia camicia da notte, ma nemmeno quel refrigerio poteva alleviare il peso che mi gravava sullo stomaco.

Mi infilai le mani fra i capelli, tirandoli leggermente. "Kay, smettila. Smettila con questi assurdi pensieri. Dopo tutti gli anni che hai trascorso in questa discarica quel tizio non ha mostrato nemmeno un segno di una possibile pazzia. Non hai letto bene quel biglietto e le minacce di Andrew potrebbero essere soltanto parole al vento. Anzi, sicuramente è così. Smettila di comportarti da ragazzina e reagisci."

Sospirai. Da quanto mi stavo ripetendo quelle parole? Dalle dieci di quel mattino, più o meno. Ormai era inutile cercare di convincermi con stupide riflessioni. Dovevo solo aspettare che la suggestione mi abbandonasse e, una volta accaduto ciò, avrei potuto vendicarmi con Slow. Oh, non vedevo l'ora di farlo.

Gettai uno sguardo alla sagoma addormentata di Sarah, raggomitolata nelle lenzuola come un bruco in attesa di trasformarsi in farfalla. Da quando la conoscevo, l'avevo sempre vista dormire con le coperte tirate fin sopra la testa. Mi aveva raccontato che, da piccola, aveva paura dei vampiri e che da allora si era abituata a nascondere il collo imbozzolandosi con le coperte. Ancora oggi, nonostante il tempo trascorso, non aveva perso il suo vizio.

"E tu quando perderai il vizio di tentennare prima di prendere una decisione?" mi feci notare automaticamente. Probabilmente mai, lo sapevi bene. Non potevo permettermi il lusso di comportarmi normalmente, come la mia coscienza mi indicherebbe di fare. Dovevo misurare ogni mia parola, valutare i pro e i contro di ogni mio gesto, decidere cosa rivelare e cosa no. Mostrarmi sempre al top. A volte desideravo cedere, mostrarmi per quel che realmente ero, ma nella giungla anche l'animale più docile si trasforma in un predatore quando non ha altra scelta. Ed io non avevo scelta: dovevo farmi valere, e sopravvivere in quell'inferno, o farmi sottomettere, e perire senza combattere.

E arrendermi non era da me. Non mi sarei arresa, nemmeno ora che tutti gli eventi sembravano ritorcermisi contro. Mi ero fatta spaventare dal capo della feccia, e stavo perdendo ore di riposo per colpa sua. Stavo soccombendo.

Mi alzai dal letto e uscii dalla porta della mia camera, cercando di non inciampare nei panni che Sarah lasciava sempre a terra, come stracci sporchi. Mi chiusi l'anta alle spalle, poggiandomi ad essa con il capo.

Il corridoio era lungo e spoglio, freddo come sempre, anche in estate. Sulle pareti di un giallo stinto si intervallavano rari dipinti d'epoca, rappresentanti volti incipriati incorniciati da bianche parrucche impomatate. Tutti gli sguardi sembravano rimproverarmi, come se sapessero una mia colpa di cui nemmeno io ero a conoscenza. Piccoli occhi scuri, scintillanti di pittura ad olio vecchia di secoli, che mi scrutavano con severità.

"Anche voi siete contro di me? Tutti lo sono! Tutti mi odiano, nessuno mi ama davvero per quello che sono. Nessuno conosce la vera me. Perché non posso vivere la vita di una comune adolescente, lontana da questo tugurio disperso nel nulla? Perché devo essere confinata qui a vita? Gli altri studenti possono tornare a casa durante le vacanze, mentre io devo restare qui, con un padre troppo avaro per staccarsi dal suo lavoro. Odio questo posto, odio tutti i suoi abitanti, odio la mia vita!" urlai nella mia mente.

Strinsi i pugni lungo i fianchi, piantandomi le unghie nei palmi e tracciando profonde mezzelune. Sentivo il cuore pomparmi nel petto ad un ritmo incessante, sfinito ma incapace di rallentare.

Una corrente d'aria mi scostò i capelli dal collo.

Rabbrividii, stringendomi la vita con le braccia, cercando di capire da dove potesse essere provenuto quel vento improvviso.

«Ti piacerebbe poter eliminare tutte le cose che odi, Kay Williams?»

Una voce mi entrò nella testa ed io sobbalzai per lo spavento. Deglutii, girai la testa da una parte all'altra, intimorita. Guardai da entrambi i lati del corridoio, fin dove sparivano nel buio, ma non vidi nessuno nei paraggi.

Feci per riaprire la porta della mia camera, desiderosa di gettarmi di nuovo sotto le coperte, tirarmele sui capelli come faceva Sarah da anni, ma qualcosa non andava.

Non riuscivo ad abbassare la maniglia.

La scossi con forza, trattenendo a stento delle grida di orrore. Normalmente non mi spaventavo con facilità, ma in quel corridoio c'era qualcosa, qualcosa di sbagliato.

Una musica cominciò a diffondersi nell'aria, simile ad una ninna nanna, ma più lenta e acuta. Era quasi stridula, alcune note era dissonanti, come se provenissero da un meccanismo difettoso o troppo consumato.

Feci un salto quando sentii un oggetto metallico scontrarsi contro la mia caviglia destra. Mi premetti una mano sulla bocca per non urlare e guardai in basso.

Un carillon. Un vecchio carillon, di quelli a forma di giostra, con i cavallucci finemente elaborati, di osso dipinto. Era rovinato, ma non per questo smetteva di produrre il lugubre suono che pervadeva il corridoio.

Mi sembrò di sentire delle parole, una specie di filastrocca...

Sette giorni ha una settimana
sette giorni hai per non morire.

Tesi le orecchie, cercando di interpretare i suoni stridenti, cercando di ignorarne il vero significato.

ll primo giorno ti svegli di scatto
per poi guardare sotto al tuo letto.

Provai a scuotere ancora la maniglia, senza risultati.

Il secondo giorno non sai cosa fare
il mistero è profondo, non ti puoi salvare.

Cominciai ad imprecare contro la porta, la strattonai avanti e indietro, la presi a calci.

Il terzo giorno qualcuno scompare
cerchi, cerchi, ma non riesci a trovare.

"Ti prego, apriti, ti prego, apriti!"

Il quarto giorno qualcosa migliora
ma non sperare, arriverà la tua ora.

Cosa accidenti stava succedendo? Perché a me, perché?

Il quinto giorno troverai un bel pacco
guardaci dentro se sei un po' matto.

Mi sembrò di sentire la serratura della porta scattare, un debole scricchiolio, in confronto al frastuono del carillon.

Il sesto giorno l'ansia ti assale
temi di perdere e che ti faccia del male.

Abbassai ancora una volta la maniglia, e questa volta la porta si aprì come se nulla fosse, libera da ciò che l'aveva tenuta bloccata fino ad allora.

Il settimo giorno giunge veloce
e spero di ucciderti in modo atroce...

Mi fiondai in camera, chiudendo la porta a chiave con più mandate, ansimando per la paura. Le gambe mi tremavano, molli come foglie bagnate e le guance, senza che me ne accorgessi, si erano rigate di lacrime.

Mi sedetti a terra, dando sfogo a ciò che mi tenevo dentro dalla mattina precedente. Nessuno poteva vedermi, non al buio, in piena notte.

Finalmente, il silenzio tornò a permearmi l'udito.

Ma ancora non sapevo che questo silenzio non sarebbe durato per molto...

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