Capitolo 5

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Un'altra settimana era passata e di Lexa neanche l'ombra. L'esasperazione di Clarke aumentò esponenzialmente, quando si rese conto che nemmeno quel giorno la sua collega sarebbe rientrata.

"Alla faccia delle ferie arretrate, ma quante diavolo ne aveva?", mormorò tra sé, mentre a passo spedito giungeva all'ufficio del capo.

Bussò al battente attendendo il permesso di entrare. Quando sentì la voce baritonale del suo capo fece capolino dalla porta palesando a sua presenza.

"Clarke so benissimo perché sei qui e cosa vuoi chiedermi", disse l'uomo anticipando qualsiasi suo pensiero.

"Visto che è un veggente, mi saprebbe anche rispondere?", replicò la bionda con una punta di sarcasmo.

"La risposta è sempre la stessa: trova una scusa, prendi tempo con il cliente".

"Capo è impossibile! Ok, che ho una fervida immaginazione, ma ho esaurito tutte le idee... eccetto una... dire al cliente che Lexa è morta", obiettò Clarke alquanto infastidita.

"Ho solo bisogno di una sua firma! Se mi dice dove diavolo è Lexa, in qualche modo vedo di raggiungerla, ovunque sia, le faccio siglare questi dannati documenti e poi ritorno in ufficio", sbuffò non sapendo più a che santo votarsi.

L'uomo si appoggiò allo schienale della poltrona e sospirò. Era più che consapevole che avrebbe dovuto dare una risposta sensata alla sua dipendente, non poteva più tergiversare.

"Lexa è a casa", disse arrendendosi all'evidenza.

"E perché diavolo non me l'ha detto subito?", le domando con stizza.

"Non lo detto ne a te ne agli altri semplicemente perché non volevo che nessuno la disturbasse... e poi è rientrata solo ieri. Quindi, ora vai, falle firmare i documenti, e torna subito in ufficio, chiaro?", l'apostrofò con tono serio.

"Come fatto Capo, non ho proprio voglia di trattenermi con lei più del dovuto", disse prima di uscire dalla porta e dirigersi verso il suo studio.

*****

Clarke era assorta a guardare il display dell'ascensore e nonostante i numeri aumentassero in rapida successione, le sembrava che quel trabiccolo ci mettesse una vita a raggiungere l'attico di quel palazzo di lusso. Non poteva di certo dire che quel condominio non fosse bello, ma a lei non piaceva, troppo moderno forse e molto freddo. Nella grande mela di sicuro c'erano abitazioni più belle ed accoglienti, che davano un lustro alla storia di New York.

Quando l'ascensore raggiunse il piano e le porte si aprirono si ritrovò a sospirare, quasi avesse bisogno di una spinta per portare a termine quella incombenza. Clarke raggiunse a passo spedito l'interno che Lexa le aveva detto al citofono e, quando fu davanti alla porta d'ingresso - moderna ed austera - suonò il campanello. Ci volle quasi un minuto prima che la padrona di casa le venne ad aprire.

Quando Clarke vide la donna per un attimo le mancò il respirò. Erano cinque anni che non vedeva Lexa in quel modo, a piedi nudi e vestita solo con un maglietta nera e dei jeans usurati che le davano un aria trasandata, quella visione intima che aveva vissuto e amato durante la loro relazione di poco più di un anno. Sentì il suo stomaco contorcersi, un pugno le avrebbe fatto meno male, quella sensazione strana che sentiva poteva portare solo altro dolore, così decise di ignorarla e fingere che tutto andasse bene - tanto ci era abituata oramai - stampandosi un sorriso sul volto.

"Mi scuso per essere piombata qui, così all'improvviso, ma non l'avrei fatto se non fosse urgente!", aprì la bocca e le dette fiato, cercando di stabilizzare la voce.

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