Capitolo 14

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Era una mattina più fredda delle altre, Clarke si era fermata nel suo solito bar, aveva ordinato un caffè da asporto e mentre usciva dalla caffetteria lo sorseggiava, sentendo il liquido caldo scaldarla. Il tepore durò un battito di ciglia, perché una folata di vento gelido, oltre a scompigliarle i lunghi capelli biondi, la obbligò a stringersi meglio nel cappotto.

Affrettò il passo e si avvicino al ciglio del marciapiede in attesa che il verde del semaforo pedonale scattasse. Prese un altro sorso di caffè, nella speranza di scaldarsi un po' e subito dopo vide il verde accendersi, dandole il via libera per attraversare.

Aveva appena messo piede sulla strada quando un motociclista – incurante del semaforo rosso – le sfrecciò davanti talmente vicino che la colpì una gamba. L'impatto fu terribilmente forte e Clarke finì malamente a terra sbattendo con violenza il lato sinistro del corpo e la testa sull'asfalto.

La botta la frastornò, le ci volle un momento per rendersi conto che, alcuni passanti preoccupati dall'accaduto, la stavano già soccorrendo. Poi sentì le sirene e dopo poco due auto della polizia ed un'ambulanza avevano già circondato la zona.

I paramedici la portarono subito al più vicino pronto soccorso per degli accertamenti. Non perse mai conoscenza e per il medico quello era certo un buon segno. Considerato l'incidente la diagnosi non era poi così male, aveva un leggero trauma cranico, una caviglia slogata e si era rotta il polso sinistro, al quale era già stato applicato un tutore che avrebbe dovuto portare fino alla completa guarigione.

"Signora Griffin, ha bisogno che le chiami qualcuno?", le chiese con gentilezza un'infermiera mentre le stava togliendo la flebo.

"No, grazie, non si disturbi... ma potrei avere il mio cellulare? Spero che con tutto il trambusto dell'incidente non sia andato perduto."

"Tutti i suoi effetti sono nell'armadietto. Glielo prendo subito", si affrettò a rispondere la ragazza.

L'infermiera frugò nella borsa riposta in un piccolo armadietto di fianco al letto e, senza troppa fatica, trovò il telefono, glielo porse e poi lasciò Clarke sola.

Appena accese il display Clarke vide moltissimi messaggi e chiamate dal lavoro, alcune erano della sua assistenza, alcune di Lexa.

Sospirò distogliendo lo sguardo dal cellulare, indecisa sul da farsi. Di sicuro avrebbe dovuto avvertire l'ufficio dell'incidente. I medici le avevano già detto la prognosi, i giorni erano molti, ma necessari affinché la caviglia guarisse completamente e potesse tornare a camminare senza l'uso delle stampelle. Proprio per questo motivo doveva farlo presente al lavoro, non poteva far finta di niente.

Dopo aver tentennato a lungo decise di chiamare la propria assistente; la informò di cosa fosse successo, cercando di tranquillizzarla come meglio poteva e chiedendole la cortesia di non far nessun tipo di allarmismo al lavoro, poiché si sarebbe rimessa in fretta e tutto sommato stava bene.

Terminata la chiamata chiuse gli occhi e sospirò profondamente rilassandosi. Poco dopo cedette agli antidolorifici e si addormentò in un sonno apparentamene tranquillo e senza sogni.

Il suo sonno non durò molto, almeno questa fu la sensazione che ebbe Clarke, quando la suoneria del suo cellulare la svegliò. Guardò il display con gli occhi ancora impastati dal sonno e vi lesse il nome di Lexa. Emise un sospiro e per un attimo fu tentata di non rispondere, ma ovviamente alla fine cedette all'impulso di sentire la sua voce.

"Pronto?".

"Ti dispiacerebbe dire a questa zelante infermiera che sono la tua compagna e che quindi sono autorizzata a farti visita per vedere come stai?".

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