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Percorsi quel corridoio, che mi sembrò infinito; era deserto e fin troppo silenzioso. L'infermiera, che mi stava accompagnando, aprì la porta di quel reparto e mi spiegò che, essendo un luogo particolare, avrei dovuto lasciare tutti i miei oggetti personali in un armadietto. Eseguì a comando, ma il mio unico pensiero era solamente quello di poter vedere mia figlia.

Mi accompagnò all'incubatrice e la vidi, per la prima volta. Mi emozionai perché era lì, in carne ed ossa; non dovevo più vederla su uno schermo, ma era davanti ai miei occhi. Era un esserino minuscolo, bella come il sole, nonostante i fili attaccati al suo corpicino per controllare tutti i suoi parametri, la testolina piegata di lato e il torace che si muoveva su e giù. La guardai e mi commossi. Era mia figlia, non ci potevo credere... Non era in pericolo di vita, e questo mi tranquillizzò; mi si ruppe il cuore, a vederla in quella situazione.

Ero diventato padre, ma non lo sentivo a tutti gli effetti; l'infermiera mi spiegò che, per i primi giorni, non potevo stringerla a me o consolarla; non potevo fare quasi nulla e questo mi mandò in bestia. Avrei solo voluto stringerla tra le mie braccia e assicurarle che tutto sarebbe andato per il meglio.

Guardai, nuovamente, mia figlia e mi sentì inutile. L'infermiera si avvicinò e mi sorrise «il respiro e il battito cardiaco sono regolari. Che ne dici di provare ad instaurare un rapporto con la piccola?»

Per me, era una situazione nuova e mi sentì terribilmente impacciato. Mi affidai completamente alla ragazza; se Arianna fosse stata al mio fianco, sarebbe stato più semplice. Ma mi ero ripromesso che ce l'avrei fatta per entrambi, anzi per tutti e tre. Con non poca paura, inserì la mano nell'oblò dell'incubatrice e, delicatamente, sfiorai la manina di mia figlia. Subito, la strinse attorno al mio dito e mai avrei pensato di emozionarmi così tanto. Sapevo che sarebbe stato un momento difficile da descrivere, ma stava succedendo.

«Vedi che non c'è motivo di preoccuparsi?» mi rassicurò il mio angelo custode, comparso dal nulla ma che mi stava aiutando, e non poco. Poi, aggiunse «ora ti resta un altro compito importante. Che nome diamo a questa piccolina?»

Fin da quando scoprimmo il sesso della bimba, io e Arianna concordammo sul nome da darle; era un nome che piaceva ad entrambi e, con orgoglio, le risposi «Nicole»

«Nicole, il dito che stai stringendo è quello del tuo papà» le sussurrò, prima di appuntare alcune informazioni sulla cartella clinica della bimba. Poi, mi avvertì che mi avrebbe lasciato solo con lei. Dopo un po' di titubanza iniziale, rimasi da solo con mia figlia; la sua manina era ancora attorno al mio dito. Con il pollice della mia mano, le sfiorai il dorso. Mi fermai a fissarla e mi aprì a lei «ancora non conosci la mamma, ma fidati che te ne innamorerai, proprio come ho fatto io. Ha un sorriso che contagia. E la sua risata? È qualcosa di meraviglioso. Ci conosciamo da cinque minuti, ma mi hai già rapito il cuore. Amore mio, ti prometto che cercherò di essere forte, per tutti e tre...» le parole mi uscirono in un modo così naturale, che neanche mi accorsi di quanto tempo passai lì con lei. Venni interrotto dall'infermiera che mi avvisò, che da li a poco, i medici avrebbero iniziato il giro di visite e dovevo allontanarmi da lei. Mi rassicurò, dicendomi che sarei potuto andare a trovarla più tardi. Le sfiorai la manina per un'ultima volta e le sussurrai «papà ti ama e tu sarai una piccola forza della natura»

Mi allontanai con il magone, solo al pensiero di doverla lasciare sola. Teoricamente, non era sola perché era circondata da medici e infermieri; ma nessuno di loro era il suo papà. Ero consapevole che quello era il posto migliore per lei, ma mi sentì comunque in colpa a separarmi da lei. Raggiunsi il primo corridoio dove, a mia grande sorpresa, trovai Andrea e Martina ad aspettarmi. Mi vennero incontro, con un sorriso e mi chiesero della bimba. Mostrai loro l'unica foto che riuscì a scattare, la prima foto di Nicole.

Alessio Romagnoli - InstagramDove le storie prendono vita. Scoprilo ora