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Entrai nella macchina, dopo un periodo che mi sembrò eterno; non mi sembrò vero di uscire dall'ospedale e poter finalmente respirare un po' d'aria buona. Dal giorno dell'incidente, non mi mossi da quelle quattro mura, se non per spostarmi da un reparto all'altro. Accesi la macchina e partì.

Direzione casa.

Mi ero ripromesso che sarei uscito accompagnato da Arianna, ma non potevo deluderla e infrangere la promessa fatta. Avevo ripreso in mano la mia vita, ma toccava riprendere in mano anche la squadra. Arianna si dovette impegnare a cacciarmi dalla stanza; fosse stato per me, sarei rimasto accanto a lei. Il calcio fu sempre stato la mia valvola di sfogo ma, in quell'occasione, persi la voglia di scendere in campo; sapevo di non essere nelle condizioni ottimali per giocare e diedi le giuste priorità. Ma ora, Arianna stava meglio e Nicole faceva dei progressi giornalieri. In qualche modo – grazie anche ad una piccola spinta della mia ragazza, che mi conosceva meglio di chiunque altro – trovai quella grinta, che avevo messo da parte.

Il tragitto ospedale – casa fu abbastanza rapido. Parcheggiai e mi preparai all'assalto dei cani. Quanto mi erano mancati quei cuccioli pelosi. Appena girai la chiave nella serratura, sentì le loro zampe battere contro il pavimento del corridoio.

«Ma ciao, peste» la gioia di Carlotta era incontenibile; mi saltò addosso, mi leccò la faccia, continuò a girarmi attorno, scodinzolando. Rocco, invece, mi portò il suo peluche a forma di riccio; glielo lanciai e me lo riportò.

Una doccia era tutto ciò di cui avevo bisogno: per prepararmi ad affrontare un allenamento – che sarebbe risultato tosto – e per togliermi di dosso quell'odore tipico degli ospedali. I cani mi accompagnarono e raccontai loro le ultime novità «siete diventati fratelli maggiori e Ari, tra poco, tornerà a casa insieme a Nicole»

***

Imboccai il vialetto che portava al centro sportivo; pochi metri mi dividevano dai miei compagni. Non vedevo l'ora di riabbracciarli e ringraziarli singolarmente per tutto l'affetto che mi dimostrarono. Avevo una carica addosso, difficile da spiegare. Parcheggiai nel mio posto riservato, recuperai le poche cose lasciate sul sedile del passeggero e mi diressi all'interno della struttura.

Era mezzogiorno passato e, sicuramente, erano già seduti in sala da pranzo. Man mano che mi avvicinavo, sentì il brusio delle loro voci. Spalancai la porta della sala e, non appena si resero conto della mia presenza, calò il silenzio più totale; studiai le espressioni che comparirono sui loro volti: Andrea quasi si strozzò con l'acqua che stava bevendo, Gigio lasciò cadere la forchetta sul piatto, Patrick spalancò la bocca così tanto che ebbi quasi paura che gli si slogasse la mascella, Hakan strabuzzò gli occhi, Davide sembrava la perfetta rappresentazione de l'urlo di Munch.

«Capisco di non essere una modella super figa, ma sembra che abbiate visto un fantasma»

I giocatori più vicini alla porta furono i primi ad abbracciarmi, ma nel giro di un paio di secondi sentì solo un frastuono di sedie, fatte scivolare sul pavimento, e venni travolto dal loro abbraccio. Mi sentì quasi soffocare, ma ebbi bisogno di quell'abbraccio collettivo.

«Brutta merda, non mi dici niente?» fu il benvenuto di Andrea, che mi diede uno scappellotto dietro la nuca. «Delicato come il tuo solito. Comunque, volevo farvi una sorpresa. Ma, un fantasma vi avrebbe fatto meno paura»

«Beh, le sembianze sono quelle» mi prese in giro Patrick, ma lo fulminai «non sei simpatico»

Il portiere spagnolo, uno tra i più grandi all'interno dello spogliatoio, cercò di riportare l'ordine «non mi sembra il momento più adatto per prenderlo per il culo. Povero, chissà come è stato in questi giorni»

Alessio Romagnoli - InstagramDove le storie prendono vita. Scoprilo ora