Epilogo

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Il signor Reese, della stanza accanto alla mia, era perfino più felice di me, quella mattina.

Si sporse oltre l'uscio della sua camera, reggendosi alla stampella, e rise. Indossava il camice dell'ospedale e una vestaglia rossa.

«La pazza se ne va! Grazie, Dio!»

Mio padre mi affiancò, issandosi il mio borsone sulla spalla. Io sorrisi all'uomo, alzando gli occhi al cielo.

«Amettilo, in fondo ti mancheranno i miei concerti improvvisati alle due di notte, Ray.»

Ma lui scosse la testa.

«Vent'anni. Vent'anni ho servito nell'esercito. E neppure le bombe di quei dannati musi gialli facevano tutto il casino che facevi tu, ragazzina.»

Io risi, per poi rivolgergli un ultimo saluto. Seguii mio padre lungo il corridoio, fino all'ascensore. Osservai la mia immagine riflessa nello specchio, sistemandomi la cerniera della felpa.

Nelle ultime due settimane, fortunatamente, ero riuscita lentamente a tornare alla normalità. I punti sulla testa non avevano lasciato praticamente segni, se non una piccola cicatrice che sarebbe andata via col tempo. Le mie guance avevano ripreso colore e volume. Mi sentivo di nuovo forte e, soprattutto, dall'intervento non avevo più avuto nessun mal di testa.

Vittoria!

Mia madre ci aspettava in macchina. Mi fece posto davanti, mentre mio padre caricava il borsone nel retro. 

«Allora tesoro, sei sicura di stare bene? Non vuoi prenderti ancora un paio di giorni per riposarti e recuperare tutte le forze?»

Io sorrisi, scuotendo la testa.

«Mamma, sto bene. Potrei mettermi ad improvvisare un balletto di tip tap in mezzo alla strada, per quanto sto bene.» cercai di rassicurarla.

La sola idea sembrò spaventarla, quindi non insistette.

Mio padre si sedette dal lato del conducente, mise in moto e imboccò l'uscita del parcheggio, cercando nel frattempo di impostare una stazione decente alla radio. Alla fine ne trovò una dove stavano passando Little Talks, dei Of Monsters and Men. Si mise a canticchiare sottovoce, e io poggiai la testa contro il sedile dietro di me. Lasciai che la città mi scorresse davanti agli occhi. Il sole era alto nel cielo, le strade erano finalmente gremite di gente dopo settimane. Passammo davanti al mio ufficio, il parco dietro casa dei miei, il drive in...

Solo allora mi resi conto che avevamo preso una strada diversa.

«Aspetta... non dovevi girare lì?»

Mio padre non disse niente. Si morse il labbro, lanciando un'occhiata a mia madre attraverso lo specchietto retrovisore. Io mi voltai verso di lei, confusa, e la ritrovai a sorridermi. Un sorriso un po' malinconico.

«Cami, io e tuo padre ne abbiamo parlato e ci siamo resi conto che forse... forse è arrivato il momento di lasciarti andare.»

Aggrottai la fronte.

«Che vuoi dire?»

«Quello che tua madre sta cercando di dirti è che... ci dispiace. Tu sei sempre stata una bambina indipendente, sveglia, precoce, e noi abbiamo sentito il bisogno di proteggerti, in qualche modo. Per questo per noi è difficile accettare che tu non sia più la nostra piccola.»

«Ma è arrivato il momento.» sospirò la donna, mordendosi il labbro. «E' ora che tu viva la tua vita da adulta senza di noi. Voglio dire, ovviamente ci saremo sempre per te, lo sai. Ma forse è ora che tu smetta di dormire nella tua cameretta da ragazzina, no?»

Questa non è una storia d'amore Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora