Cap 4

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Entrammo in un vecchio portone di una palazzina a tre piani. La facciata era a mattoni rossi, interrotta da terrazze in cemento. Era molto vecchia, ma sembrava ancora ben piantata sui suoi pilastri. Molto diversa dalle palazzine di ultima generazione, tutte dello stesso colore, a causa del cartangesso lasciato grezzo, senza intonaco esterno.

Scendemmo due piani di scale, con gli scalini in granito grigio e bianco.

Improvvisamente, mi sentii salire le lacrime agli occhi, ma le bloccai prima che superassero le ciglia. Mi appoggiai al muro, la vista offuscata e traballante.

"Tutto okay?" Mi sentii chiedere.

Annuii in silenzio.

No, non andava bene per niente! Per una frazione di secondo mi ero sentita a casa, mi erano riecheggiate nelle orecchie le urla di mia madre, che mi rimproverava per l'ennesimo ritardo. Avevo anche percepito nell'aria l'odore del tabacco clandestino di mio padre, come se fosse appena passato di lì.

Ero una stupida, a farmi sorprendere ogni volta così dai ricordi. Li avevo persi ormai e dovevo farmene una ragione. Mi imposi il mio solito mantra:

"Non potrai vederli mai più, non potrai più avere loro notizie né loro di te, dovrai cavartela da sola." Così come mi aveva spiegato il capo squadra Ryut, che mi aveva strappato a forza dalle braccia di mia madre e costretta a salire sulla navetta solare.

Inspirai con forza, inghiottendo il dolore insieme all'aria e ripresi a scendere.

Tutto il mio odio per gli invasori, invece, ritornò violentemente a galla, ora che me ne ero rammentata le ragioni.

Damian mi aveva scrutato di nascosto per tutto il tempo: molto probabilmente pensava che avessi ancora problemi con le ferite al collo, oppure semplicemente perché non si fidava di me.

Entrammo in un enorme scantinato dal soffitto piuttosto alto: doveva essere stato un piano garage una volta. Appena varcata la soglia, mi ritrovai circondata da persone sconosciute, che chiacchieravano tra di loro in evidente attesa di qualcosa.

Sentii la mano fresca di Damian prendere la mia e mi voltai per chiedergli che cosa diavolo stesse facendo. Invece trovai il suo viso a un centimentro dal mio e il suo fiato caldo, dal sapore dolce e vellutato, mi carezzò le guance:

"Resta vicino a me."

Rimase lì, a fissarmi, senza accennare un qualsiasi movimento per allontanarsi. Era serio, ma c'era un secondo strato di verità nei suoi occhi e mi resi subito conto che non riuscivo a leggerlo.

Fui io a interrompere quello strano momento, voltandomi verso la folla. Annui muta, di nuovo. Stavolta semplicemente perché non avevo ossigeno sufficiente nei polmoni per poter parlare.

Mi strattonò delicatamente verso il centro dell'androne, illuminato da piccole luci a led, incastonate qua e là nel soffitto, così che si creavano delle isole luminose, in cui si potevano vedere i volti delle persone, inframmezzate da vaste chiazze di buio, dove si distinguevano solo ombre.

C'era molta gente, comunque; molta di più di quella che mi sarei aspettata. Mi venne spontaneo chiedermi se fossero tutti dei Segnalati, oppure tanti fossero dei semplici curiosi come me.

Damian alzò un braccio per farsi vedere da qualcuno tra la folla. Pochi passi dopo, si fermò davanti a un uomo alto, con i capelli sale e pepe, ricci e spettinati, come se avesse passato una giornata pesante.

"Siete in ritardo!" rimproverò i due ragazzi, poi si voltò cupo verso di me, "Lei chi è?" Mi scrutò nervoso. I suoi occhi erano freddi, distanti, ma intelligenti.

Come artigli sul vetroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora