Cap 3

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Non smetterò mai di ringraziare Flavio Manzoni, designer della Ferrari, per aver immaginato la navicella spaziale più sensuale ed elegante della storia e soprattutto per averla disegnata esattamente come le ho sempre desiderate io.


Fui riaccompagnata a casa da una navetta, come unica passeggera: un privilegio di cui non avrei più rigoduto in tutta la mia vita, ma che, in quei momenti, non potei apprezzare. Ero troppo presa dai miei ragionamenti per guardare fuori dal finestrino. Mi erano capitate troppe cose strane tutte insieme e il mio cervello soffriva di surriscaldamento. Tante domande si affollavano a tal punto che, quando potei scendere da quel trabiccolo volante ed entrare finalmente nel mio appartamento, mi scoppiava la testa.

Non era ancora scesa la sera, ma decisi lo stesso di coricarmi. Avevo anche freddo, cosa che mi convinse che iniziava a salirmi la temperatura, proprio come aveva predetto la dottoressa.

Fortunatamente mi addormentai quasi subito, stremata dal dolore e dalla conseguente stanchezza. Sognai i Ryut, il mio arresto e persino la mia esecuzione. Mi svegliai sudata nel cuore della notte e fui preda di una violenta allucinazione: mi parve di vedere un'ombra aggirarsi nella stanza e urlai terrorizzata. Oppure fu un sogno.

Riaprii gli occhi solo più tardi, quando ebbi una forte sensazione di fresco sulla fronte, convinta che mia madre mi avesse messo una pezza bagnata, mi avesse sollevato delicatamente la testa e mi avesse fatto bere qualcosa. Invece ero al buio, nel mio letto, sola. Per certi versi, fu consolante ritrovare la realtà così come doveva essere.

Mi svegliai nel tardo pomeriggio, affamata. Scendendo dal letto, fui preda di una violenta vertigine, che mi avvisò che non ero ancora in forma, anche se la febbre era diminuita.

Mi preparai un po' di thé con i biscotti, andai a passarmi sulle ferite la pomata che mi era stata prescritta, scoprendo che stavano incredibilmente meglio; poi però tornai a letto e sprofondai in un sonno stavolta tranquillo e senza sogni.

Al risveglio, albeggiava. Mi crogiolai un po' sotto le coperte, proprio come mi piaceva fare quando non dovevo lavorare. Alla fine mi alzai, scoprendo di essere di nuovo stabile e mi infilai nella doccia bollente. Fu la medicina più efficace.

Rinvigorita, decisi di cucinare il pezzo di carne nel frigo, riproponendomi prima di sera di passare da Chan a pagargli il resto.

Mentre la carne cuoceva in forno, aprii la portafinestra della camera per far entrare la luce del sole.

Fu allora che la vidi, quasi completamente nascosta dal sistema mimetico di riflessione. Sembrava un miraggio, un effetto ottico dei raggi solari.

Non era una navetta come quelle che ero solita prendere per andare a lavoro. Questa era slanciata e più piccola, ma sotto alle ali si vedevano chiaramente le bocchette dei cannoni: era una navicella da guerra.

Ne rimasi affascinata e terrorizzata allo stesso tempo, immobile pochi metri sopra il mio cielo. Finché non vidi lui.

Aveva alzato la visiera del casco, perché io lo riconoscessi. Era solo al comando e mi fissava con i suoi occhi gialli, che al sole erano color ambra acceso.

Per un attimo, il mondo smise di respirare: bloccata in una meraviglia, che fino a qualche giorno prima avrei considerato impossibile.

Alzò la mano e mi dedicò un saluto degno del più alto colonnello. Poi mi sorrise, un attimo prima che la navicella soffiasse l'aria dai motori, pronta a sfrecciare via. Mi coprii gli occhi contro la polvere che si sollevò dal terreno. Quando li riaprii, era sparito e tutto era nuovamente silenzio e sole.

Come artigli sul vetroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora