Capitolo 17

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29 novembre;

Quando esco dalla doccia il dolore alla testa non si è calmato. Avvolgo il mio corpo con l'asciugamano ed esco dal bagno. Mi siedo sul letto e afferro il cellulare che non ha smesso di squillare in questi giorni.

«Pronto?»

«Oralee, accidenti perché non rispondi?»

«Mamma, sto bene», mento portandomi le ginocchia al petto.

«Perché non mi hai risposto? Cos'è successo?» Continua ad indagare preoccupata.

«C'è stata una forte tempesta in questi giorni, è andata via l'elettricità quindi non ho potuto caricare il cellulare che era scarico», mento ancora ma voglio solo chiudere questa conversazione.

«Tornerai qui, a Dalmwin per riprendere le tue cose?»

«No», stringo il cellulare tra le dita.

«Vuoi che te le spedisca?»

«Mamma devo andare», sbuffo portandomi una mano tra i capelli umidi.

«Va bene, però rispondi al cellulare la prossima volta. Non farci preoccupare.»

«Ciao.»

Quando attacco, spengo il cellulare e lo butto sul materasso. Finisco di asciugarmi e, quando ho terminato di sistemarmi, esco dal bagno. Oggi c'è il sole e le strade non sono più inumidite dalla pioggia. Ormai è quasi una settimana che sono chiusa in casa, nel mio letto, a rimuginare. Se non esco da qui potrei impazzire, come se non lo fossi già.

Matthew me lo disse, quando ancora andavo alle sue sedute, che dovevo sforzarmi di uscire di qui ogni tanto. Anche se può sembrare difficile, anche se non trovi la forza e preferiresti restare in quel letto tutto il giorno. Passo intere settimane, mesi a rinchiudermi in casa, sotto le coperte, non riuscendo neanche ad alzarmi e a fare ciò che tutti normalmente fanno; poi ci sono quei giorni in cui mi sembra di riprendere in mano la mia vita, anche se non del tutto, e riesco ad uscire di casa, riesco a prendere in mano i pennelli e dipingere, riesco a racimolare e a mettere insieme i pezzi del puzzle. Questo è uno di quei giorni.

Afferro le chiavi della macchina ed esco di casa chiudendo a chiave la porta. Un quarto d'ora dopo sono nei corridoi dell'accademia diretta in laboratorio. Voglio dipingere e, per farlo, ho bisogno del materiale. Quando entro in aula incontro Yoel, il quale mi sorride e mi viene in contro.

«Oralee, che bello vederti.»

«Buongiorno professore», lo saluto per poi raggiungere gli scatoloni in cui sono tenute le tele.

«Dipingi?», continua ed io alzo gli occhi al cielo. Fortunatamente non può vedermi ed io mi limito ad annuire. Afferro due tele di yuta ed due di cotone, sistemandole in un sacchetto. Mi volto ancora, cercando di non puntare lo sguardo su Yoel, e mi avvicino ai cassetti della pittura. Prendo dei tubetti di pittura ad olio e di acrilico e li aggiungo alle tele.

«Hai visto il nuovo bando? Se ti iscrivessi lo vinceresti sicuramente», mi dice una volta chiuso il cassetto. Alzo lo sguardo verso di lui e sospiro.

«Non credo faccia per me, professore.»

«Secondo me sì, Oralee. Hai talento e dovresti provarci almeno una volta. In palio c'è la mostra e, sicuramente, qualcuno sarà disposto a pagare una grossa somma di denaro per i tuoi lavori», continua avvicinandosi e portando le mani in tasca.

«Quando terminano le iscrizioni?»

«A metà dicembre. Posso mettere una buona parola, solo per te.» Sogghigna ed io quasi arriccio il naso non potendone più della sua sfacciataggine.

«Magari le faccio sapere. Arrivederci, professore.» Afferro il sacco da terra pronta ad uscire dalla stanza ma, ancora una volta, me lo impedisce.

«Oralee aspetta, ti va di parlarne una di queste sere a cena?» Propone afferrandomi il braccio. Sposto lo sguardo seccato dalla sua mano lungo il suo viso, poi mi scosto tirandomi via dalla sua presa.

«Mi spiace professore, ma gradirei mantenere un rapporto professionale e non credo che una cena sia il caso.»

Esco velocemente dal laboratorio camminando a passo svelto. Non gli ho dato neanche il tempo di rispondere o di aggiungere altro, mi ha fatto venire il voltastomaco. Elijah ha ragione, dovrebbe riguardare il suo atteggiamento.

Quando torno a casa non ci penso due volte che appoggio una tela sul cavalletto e mi metto all'opera. Le pennellate sono leggere e veloci, continue e vibranti. La mia mano si muove quasi autonomamente, intingendo il pennello una volta nell'acqua e una volta nei colori.

Una volta Frida Kahlo disse "Io non dipingo sogni o incubi, io dipingo la mia stessa realtà". Non sono mai riuscita ad approvare ciò, è impossibile non dipingere i sogni o gli incubi perché fanno parte della stessa realtà. Gli incubi creano esperienza e dall'esperienza nascono i sogni e tu non puoi rifiutare di accoglierli perché finché vivi, vivi nella realtà. Io vivo in quel costante incubo e, in questa realtà, sogno di poterne scappare. Sogno di poter aprire quella porta, di uscire da questo appartamento che non fa altro che ricordarmi che Oralee è scappata e si è rifugiata qui pur di non affrontare uno dei suoi peggiori incubi. Vorrei poter uscire da qui sentendomi realmente libera e spensierata come solo una ragazza della mia età dovrebbe essere. Vorrei poter dire la verità alla mia famiglia, guardare in faccia Keith e dirle che va tutto male. Vorrei avere Elijah qui, farmi rimproverare da lui perché mi scuso troppo spesso, perché mangio poco e mi distraggo in continuazione. Vorrei averlo qui perché quando sono con lui, Seth non può raggiungermi. Vorrei riuscire a tornare a Dalmwin e a lavorare serenamente in caffetteria, aspettando che lui varchi la soglia, con i suoi libri tra le mani, e vorrei che mi chiedesse di preparargli un decaffeinato. Vorrei portargli la sua tazza e ringraziarlo perché, come ogni singola volta, lui riesce a salvarmi.

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