1 Il mio nome è Nora

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Fu come saltare da un pontile caldo e cadere improvvisamente nell'acqua ghiacciata. Una violenta tempesta di sabbia che dopo essere passata aveva lasciato un ambiente completamente diverso da quello che c'era prima. Si sentiva così dopo essere atterrata dall'aereo. Spaesata e con le ossa gelide. La temperatura fu la prima cosa che notò. Freddo, freddo, freddo, non riusciva a pensare ad altro. Era settembre, e sebbene fosse consapevole che le temperature del Rhode Island si sarebbero abbassate nei mesi invernali, si strinse nel suo nuovo cappotto color cammello il più possibile. La sua casa le sembrò improvvisamente così distante, e non solo fisicamente; era come se l'intero ricordo si fosse sbiadito. Tutto, eccetto l'espressione di suo padre, quella la ricordava chiaramente. Prima di andarsene ebbe la sfrontatezza di guardarlo in viso e lui ricambiò con un'occhiata che sembrò volesse incenerirla. Salì sul suv di Karim, il loro autista personale, in direzione dell'aeroporto di Al Kuwait con la morte nel cuore. Si girò solo una volta a guardare la dimora che l'aveva ospitata fino a quel momento, e poi di colpo quella maestosa villa a due piani con l'atrio acciottolato e il patio coperto non c'era più.
Karim le aveva parlato gentilmente dicendole che sarebbe andato tutto bene, suo padre le aveva già affittato un piccolo appartamento. Sì, era diverso da quello a cui lei era abituata, modesto, ma ci avrebbe fatto presto l'abitudine. Tanto non avrebbe avuto tempo per stare a casa, sarebbe stata al college per gran parte della giornata, giusto? Aveva stretto la mandibola, le era parso di ricevere una di quelle frustate che davano i beduini ai loro cammelli. Quello era un colpo basso che voleva dire solo una cosa: è vero, ti sto lasciando partire, ma non credere che abbia perso il controllo di te. Ma poi Karim le aveva sorriso, un sorriso radioso da cui era spuntata la fila dei suo denti bianchissimi, e lei aveva subito accantonato quel pensiero scomodo. Dopotutto, voleva bene a Karim. Era lui che le comprava le sigarette di nascosto e l'accompagnava con quel macchinone nero e sempre luccicante quelle poche volte che aveva il permesso di uscire fuori di casa. Era il suo unico complice in un certo senso. Lavorava per suo padre praticamente da quando lei aveva memoria, sapeva che aveva una famiglia nel quartiere di Salmya, ma francamente non li aveva mai conosciuti. Le sembrava che Karim spendesse tutto il suo tempo e le sue energie al servizio di Patrick Blanchard, come d'altronde chiunque lavorava per lui, dai dipendenti, ai tuttofare, per finire con le cameriere, Haifa e tutte le persone che prestavano servizio in casa. Patrick Branchard era potente, onnisciente, sembrava che nulla potesse sfuggire al suo controllo, nulla tranne la partenza della figlia.
Prima di salutarla Karim le aveva porto una piccolo regalo. No, non erano sigarette, ma un ciondolo in argento dalla fattura economica molto bello.
"Allah mi manderà in paradiso per questo piccolo dono."
Si era sentita pungere gli occhi e le era balenato per la mente che forse era quello l'addio che più si avvicinava a quello familiare. Lo aveva abbracciato forte avvertendo il suo debole profumo di dopobarba e poi se n'era andata via. Di nuovo senza voltarsi. Di nuovo con quell'espressione dura in volto, determinata e decisa, nonostante tutto. E adesso era lì, a Providence. Ci volle un po' per fermare un taxi; ce n'erano molti, ma ognuno sembrava fermarsi e ripartire rapidamente. Quando finalmente ne trovò uno disponibile, si lasciò cadere sui sedili, grata per il calore confortante dell'abitacolo. Parlò al tassista con il suo inglese dall'accento morbido. 
"Alla Brown, per favore."
"Ma certo, dolcezza."
Sobbalzò a quella parola, ma il tassista appariva tranquillo, forse era un'espressione affettuosa comune anche tra estranei. Uscì dal taxi, afferrò il suo trolley e alzò lo sguardo: per la prima volta, la sua vista incontrò l'edificio che si ergeva davanti a lei. Aveva visto la sabbia chiara creare dei moti geometrici nel vento, i raggi del sole poggiarsi sulla moschea di Al Kuwait maestosa e chiarissima, il sole tramontare enorme su un orizzonte di fuoco, eppure, alla vista della Brown trattenne lo stesso il fiato. Nonostante pioviginasse sembrava che nulla potesse scalfirla. Era alta, imponente. Le mura brune si sposavano alla perfezione con il prato verde, tagliato corto. Gli alberi semi spogli, dormienti e tranquilli, erano impreziositi alla base da un grande tappeto di foglie giallo-verdi. Aveva letto da qualche parte che il periodo migliore per visitare la Brown era in autunno. Beh, chiunque l'avesse scritto aveva ragione. I ragazzi brulicavano come formiche, ragazzi americani, vestiti in maniera casual. Di colpo si sentì a disagio per la gonna nera sotto al ginocchio che portava e la camicia bianca. Era troppo elegante e formale. Un senso di inadeguatezza la abbracciò subito, si sentì fuori posto, completamente.Camminò per alcuni passi e poi, con il cuore che batteva forte, si fermò dietro a un albero e si inginocchiò, sconvolta. Le sue décolleté nere si macchiarono di fango, ma in quel momento, l'unica cosa che contava era calmare il suo respiro. Lei aveva sempre studiato a casa, da autodidatta, l'unico squarcio di vita scolastica che aveva assaporato era quando aveva sostenuto l'esame per conseguire il diploma e anche lì c'era stata poca gente, giusto la giuria dei professori, ma neppure l'ombra dei suoi coetanei. Non aveva mai avuto nessun tipo di rapporto con loro, né si era mai trovata a dover avere a che fare con tutto quello. Ne sarebbe stata in grado? L'ansia le serrò il respiro, si coprì gli occhi con le mani, se non si fosse trovata in un luogo pubblico avrebbe preso seriamente l'idea di piangere. Improvvisamente nella sua mente comparve l'immagine chiara e netta di suo padre.
"Dannazione, sei una Branchard! Raddrizza quelle spalle, fingi un sorriso fiero e non farti schiacciare da nessuno. Mai."
Così avrebbe replicato se l'avesse vista accovacciata dietro un albero come un cucciolo indifeso. Stranamente, pensare ciò le fece bene, come una frase motivazionale o qualcosa del genere. Si tirò su, fece un altro lungo respiro e stavolta si sentì davvero meglio. Camminò con lo sguardo rivolto in avanti cercando di risultare sicura di sé, non badando alle occhiate interrogative dei ragazzi e delle ragazze che la facevano sentire fuori posto, ma non importava, lei non se ne sarebbe dovuta curare. Nulla l'avrebbe schiacciata, non agli inizi di quella sua nuova vita.
Si diresse verso la segreteria, sapeva che doveva fare così. L'impiegata, una signora cicciotta sulla cinquantina, alzò lo sguardo su di lei una volta sola, ne fu segretamente grata, almeno ai suoi occhi risultava normale, era già qualcosa. La vide smanettare al computer e poi rivolgerle informazioni riguardanti il campus e l'orario della mensa. Era gentile anche se parlava molto velocemente.
"Nora Abbott, dico bene?"
La segretaria la fissò e lei si sentì di nuovo vacillare, stavolta più forte di prima. Quello non era il suo nome. Ci doveva essere stato un errore nell'iscrizione e non sapeva come era potuto succedere, nella lettera che le era arrivata a casa il suo nome e cognome era stato trascritto correttamente. Trascorsero alcuni secondi, le pupille verdi della segretaria la fissavano con insistenza mentre le sue dita tamburellavano sulla scrivania. Quel ritmo sembrava sincronizzato con i battiti rapidi del suo cuore. Cosa sarebbe accaduto se avesse detto la verità? Sarebbe andato tutto in frantumi? Da dietro la grande vetrata il panorama era sempre lo stesso, i ragazzi là fuori camminavano, ridevano, parlavano, vivevano. E poi lo notò. In lontananza, un arcobaleno dietro i monti. Ne fu catturata, lo trovò così bello, soave, pieno di grazia e speranze, come un inizio. Nulla avrebbe dovuto scalfirla, neppure un controllo che non si era scrollata di dosso. Stava cercando di farle capire di nuovo quello, no? E lei, orgogliosa com'era  avrebbe mostrato indifferenza. Nuova vita, giusto? E nuova vita sia, a tutti gli effetti. Piantò i suoi occhi in quelli della segretaria e pronunciò le parole in maniera calma, fredda e assolutamente sicura.
"Sì, il mio nome è Nora."

Okay, ecco il primo capitolo ❤Nora è arrivata a Providence, esatto, Nora, verrà chiamata sempre così, lei stessa ha accettato di farsi chiamare così, per orgoglio, per rispondere con indifferenza a quel gesto che sembra voler dire: hai visto fino ...

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Okay, ecco il primo capitolo
Nora è arrivata a Providence, esatto, Nora, verrà chiamata sempre così, lei stessa ha accettato di farsi chiamare così, per orgoglio, per rispondere con indifferenza a quel gesto che sembra voler dire: hai visto fino a che punto sono potente? 🤣 Almeno questo è quello che pensa lei. Eppure, quel padre che lei non capisce, detesta in un certo senso, paradossalmente le è stato d'aiuto per spronarla seppur inconsapevolmente.

L'arcobaleno è un dettaglio che ci sarà nelle presentazioni dei personaggi, ognuno lo noterà nello stesso momento e ognuno avrà le sue personali reazioni a riguardo, serve a sottolineare il modo di reagire (e perciò una piccola sfumatura del carattere) a un semplice evento naturale. È anche un segno che sta a indicare che le loro strade si incroceranno.
A presto😘

L'usignolo sul fiore di lotoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora