3 For cash

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Elijem86 per te❤

Evan

Il temporale non accennava a placarsi, lo sentiva da dietro le mura. Le gocce di sudore dalle tempie cominciavano già a scorrere giù verso il collo impregnando la sua maglia. Continuava ad allenarsi in silenzio, non un lamento, né un'imprecazione per il peso pesante sulla sbarra. Una, due, tre serie e poi da capo. Avvertiva i pettorali tesi e doloranti, ma era un dolore che gli piaceva, gli dava la sensazione di essersi allenato a dovere. Dopo aver finito l'ennesima sessione si alzò per andarsene, era lì da più di un'ora ormai.
Passando vicino la zona boxe vide sul ring due uomini che si allenavano con troppa foga. Posò il suo sguardo su di loro per non più di una frazione di secondi, poi voltò il viso da un'altra parte. Non gli piaceva chi si impegnava troppo per darsi delle arie, la sua esperienza gli aveva insegnato che chi faceva il gradasso in realtà era timoroso come un topo. Nonostante quel particolare, quella era l'unica palestra dove andava abitualmente. Poco frequentata, tranquilla, anonima.
Entrò in macchina e andò spedito a casa. Notò che il temporale era aumentato, meglio così, era una delle poche, pochissime cose che apprezzava.
Minuscole sfere di cristallo spinte giù da un qualcosa più grande di loro, incontrollabile, che sfuggiva ai voleri di tutti. Gli era venuto in mente una sera come tante altre mentre se ne tornava a casa dopo il lavoro e l'aveva trovata azzecca anche se in effetti tutto ciò faceva a pugni con il suo modo di essere. Evan odiava non avere sotto controllo la situazione. Solo chi aveva il sangue freddo riusciva a essere organizzato e preciso. La freddezza era il suo biglietto da visita, e grazie al suo carattere non gli era stato difficile estendere quella peculiarità sul lavoro.
Dopotutto freddo lo era sempre stato.
Da ragazzino, non era il gradasso, né tanto meno il rubacuori della scuola.
Era il tipo dallo sguardo duro che non dava mai troppa confidenza a nessuno, che faceva sudare la attenzioni di chiunque e rispondeva a monosillabi. Riservato. Forse, quell'atteggiamento era per via dei luoghi che aveva frequentato da piccolo. Ogni estate con i genitori passavano le vacanze in un paesino freddo e montuoso vicino Praga. La gente che vi ci abitava era come il clima di lì: glaciale. Ricordava che quando aveva avuto circa cinque anni, mentre era intento a giocare davanti l'uscio della loro casa vacanze, vide una signora cadere a terra. Udì lo schianto della bicicletta, un urlo strozzato e poi rimase pietrificato dalla preoccupazione prima e dallo sconcerto poi nel notare la gente passare lì davanti completamente indifferente. Nessuno l'aveva soccorsa, tutti avevano fatto finta di nulla. Non era per cattiveria, semplicemente quella gente non faceva mai entrare neppure un minuscolo raggio di calore nel loro duro guscio fatto di riservatezza. Era da maleducati comportarsi in maniera invadente. Forse, quella mentalità gli si era trapiantata dentro più di quello che pensava. Molte volte guardandosi allo specchio aveva notato che aveva anche le sembianze dei nordeuropei. Oltre a un cognome impronunciabile, il padre gli aveva lasciato in eredità il suo aspetto esteriore: capelli castani che alla luce del sole diventavano biondi, una buona statura e due occhi che non si capivano mai se fossero grigi o blu.
Il sorriso, be', quello erano poche le persone che erano riuscite ad apprezzarlo.
Varcò la soglia del suo appartamento e non accese neppure la luce, sapeva come muoversi e non era solo perché abitava lì da due anni. Andò spedito in bagno e si fece subito una doccia per lavare via l'odore pungente di sudore e di palestra umida e vecchia.
Mentre l'acqua scrosciante gli tartassava le scapole, appoggiò le mani sulle piastrelle calde, chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi. Era molto importante entrare nell'ottica lasciando fuori tutto il resto, c'erano solo lui e il suo obiettivo, punto.
Si vestì con un pantalone nero, una camicia nera e una giacca nera. Completamente total black. Il nero era un colore che sentiva calzargli a pennello non solo addosso, ma persino dentro la pelle.
Ricontrollò l'indirizzo, era un hotel nella parte centrale della città. Mentre uscì fuori dal suo appartamento scorse di spalle la sua vecchia vicina che, sbadata com'era, si chinava per raccogliere le chiavi cadute a terra. Evan le passò davanti, ma l'anziana non fece neppure il gesto di alzare lo sguardo e guardarsi intorno. Quella era una cosa imparata alla scuola militare.
Passo felpato, nemmeno l'udito più fine l'avrebbe sentito arrivare.
Arrivò all'hotel in circa mezz'ora.
Scese giù dall'auto e si inoltrò dentro.
Gli saltò subito all'occhio il tappeto rosso che ricopriva buona parte del pavimento, le piante finte ai lati del bancone e un portaombrelli in ottone scuro posizionato vicino la porta di entrata. Una giovane receptionist, da dietro la sua postazione, sorrideva gentile mentre rispondeva alle domande di due turisti vestiti in maniera bizzarra e con i sandali ai piedi. I suoi occhi saettarono per tutto l'ambiente e poi si bloccarono di colpo su un punto preciso. Era lì, rientrato in perfetto orario dalla sua conferenza.
Stava parlando al telefono mentre con la mano libera schiacciava ripetutamente il tasto dell'ascensore, come se quel suo gesto potesse servire a velocizzare il macchinario, perché si sa, per tipi come lui il tempo era denaro.
Nonostante ciò non perdeva minimante di vista l'ambiente circostante, aveva uno sguardo duro e guardingo. Tale e quale a come lo aveva visto alla televisione, l'unica cosa era che lo aveva immaginato più alto. Lasciò perdere quel pensiero assurdo e si avvicinò pure lui all'ascensore. Scorse la telecamera all'angolo e sorrise mentalmente, sapeva che non funzionava, aveva già studiato il tutto. Le porte si aprirono proprio in quel momento e entrambi entrarono dentro. Si sentì scrutare dall'uomo che aveva alla sua destra, lo stava studiando. Dopo circa una decina di secondi notò che distolse lo sguardo, si allentò la cravatta e buttò fuori un respiro che pareva di sollievo.
Pensò che probabilmente l'avesse scambiato per un modello, uno di quelli che in quei giorni alloggiavano all'hotel in vista del gala di moda che ci sarebbe stato a breve in città.
"Brutto tempo, eh?"
"Bruttissimo."
Evan rispose così suscitando un sorriso nel suo interlocutore. L'ascensore continuava a salire. Terzo piano. Quarto piano. Quinto piano. Sesto piano.
Settimo. Prima che le porte si aprissero agì. Un colpo, uno solo, silenziato, impercettibile a chiunque, persino a lui e poi il silenzio. Pigiò sul tasto zero e mentre l'ascensore calava giù di botto non guardò in faccia Robert Johnson neppure per una volta. Come se fosse stato qualcosa di insignificante, una pianta, oppure una pezzuola sporca che la cameriera ai piani aveva dimenticato.
Scese giù fin nel parcheggio sotterraneo dell'hotel e da lì uscì fuori. Providence era sempre uguale, identica a prima e cosa più importante, nessuno l'aveva visto.
Tornò a casa, aprì la cassaforte, al suo interno vi erano i documenti e i passaporti. Rimise la sua calibro diciannove al suo posto e poi la richiuse.
Si sentiva addosso un leggero senso di soddisfazione, nient'altro. Non era contentezza, neppure fierezza nell'amare quello che si faceva, era più un senso di aver concluso il suo lavoro, averlo fatto bene, secondo i piani. Solo in quel momento si accorse dell'arcobaleno nel cielo. Completamente indifferente, spostò lo sguardo da un'altra parte. Era stato già pagato. In contanti, come sempre.
Roger Lee sapeva bene come lui lavorava, la sua fama lo precedeva. Dopotutto, era grazie a quella se lo aveva scovato, e deciso di sbarazzarsi di quel figlio di puttana di Johnson, diventato troppo ingombrante nel campo politico. Nell'unico colloquio che avevano avuto, Lee si era sinceramente stupito della sua giovane età e poi gli aveva spiegato quanto Robert Johnson era per lui come una pedina schizzata che avrebbe sicuramente mandato all'aria la sua ascesa in campo politico.
Evan aveva ascoltato tutto in silenzio captando perfettamente che in realtà quello era solo uno sporco gioco di soldi e potere, nulla di più. Roger Lee non era tanto diverso dal suo rivale, erano fatti della stessa pasta. Ma non gli importava, quel tipo di moralismo non doveva far parte della sua etica. L'aveva scelta lui quella vita. Gli era capitato di ascoltare distrattamente alla televisione, in dei programmi crime, la descrizione accurata di un serial killer: squilibrato, tormentato, pieno di traumi irrisolti.
Evan non si sentiva nulla di tutto ciò.
Cresciuto nella contea di Kent, da una famiglia per bene. Suo padre, originario di un paesino vicino Praga, era sbarcato negli Stati Uniti per cercare fortuna e lì aveva trovato lavoro e anche l'amore. Con gli anni era diventato naturalizzato americano, talmente tanto che seguiva il football come un qualsiasi yankee, ed era stato proprio durante la finale del Super bowl che ebbe il suo unico e fatale attacco di cuore quando Evan aveva diciassette anni. Pavel Zárboskí aveva sempre avuto un carattere schivo e riservato, ma senza dubbio era stato un bravo genitore. Devoto alla famiglia, nessun vizio, neppure quello di giocare a carte o fermarsi con gli amici al bar dopo il lavoro. Evan aveva deciso di intraprendere la carriera militare per lui. A suo padre sarebbe piaciuto, ma un incidente di caccia durante la sua adolescenza aveva stroncato in un colpo non solo la sua arteria ma anche il suo sogno, così l'aveva passato al figlio. Per Evan non era stata una costrizione.
Seguire delle regole, disciplina, gli piaceva. Dopo il diploma aveva prestato servizio per due anni in Iraq dove aveva visto cose che avrebbe certamente preferito dimenticare. L'odio dell'uomo sull'uomo era terribile, Evan l'aveva visto bene e continuava a vederlo bene con la sola differenza che con il tempo era diventato lui il mezzo dell'odio.
Di giorno lavorava come bodyguard per una famiglia ricca e conosciuta, la notte faceva quello. Proteggere prima e ammazzare poi, un parallelismo che quel matto del suo sergente avrebbe trovato divertente. Ogni mese mandava una grossa somma di denaro a sua madre. Lei non si faceva domande, pensava che un bodyguard guadagnava quelle cifre perché lui le aveva detto così. Lei, ingenua da tutta una vita, era semplicemente grata di quel figlio che aveva messo al mondo, grata di aver sistemato il tetto della sua casa grazie ai soldi che lui le aveva mandato, dispiaciuta solo che non potesse vederlo spesso come avrebbe voluto.
"La tua ma' ti capisce benissimo, i bodyguard lavorano tanto, eh?"
Quella volta aveva rispolverato lei quel nomignolo mettendo subito a tacere le scuse che lui aveva propinato per giustificare la sua assenza. Già, i bodyguard. Evan ripensò a quello che faceva davvero. Ripensò ai visi di tutti quelli a cui aveva fatto esalare l'ultimo respiro, li ripensò a uno a uno. Il pensiero non fu pesante da digerire, ci aveva fatto l'abitudine. Non era stato semplice però. All'inizio li sognava la notte. Cadaveri vivi che dentro i suoi incubi peggiori, lo fissavano con gli occhi aperti. E poi c'era l'odore, quello sembrava non andarsene mai, gli restava cucito addosso. Pensava provenisse dai suoi abiti, arrivava a casa e li gettava in lavatrice, metteva due tappi di ammorbidente, ma nulla sembrava farlo andare via. Capì solo in seguito che l'odore non era negli abiti, si trovava dentro la sua testa e finché non ci avrebbe fatto l'abitudine non se ne sarebbe mai andato. Se qualcuno gli avesse chiesto perché lo fai? si sarebbe sicuramente aspettato una motivazione toccante. Un padre manesco, una madre alcolizzata, delle compagnie che lo avevano rovinato. No, Evan non aveva vissuto nulla di tutto quello. Sì immaginò il presentatore di uno di quei programmi crime che gli porgeva quella domanda. Perché lo fai?
Mentre con una mano sganciava dal polso il cinturino del suo Rolex da mille dollari, si guardò allo specchio e la risposta arrivò di getto.
"Per soldi, lo faccio per soldi."


Testosterone finalmenteeeee!!!!!
Allora! Abbiamo appreso il lavoro principale di Evan ossia il bodyguard e abbiamo appreso anche il suo secondo lavoro.
Proteggere prima e ammazzare poi, bene, benissimo 😁
Ovviamente la prima domanda che tutti si pongono (me la sono posta anche io quando l'ho ideato) è appunto ma perché fa questo?
Lui dice per soldi. Sicuramente lo è, ma chi arriva a sporcarsi l'anima così tanto solo per dei cash anche se tanti?
Quello che sappiamo finora è che è cresciuto in una famiglia normalissima e che il suo carattere dalla sfumatura un po' fredda fa comunque parte di lui.
L'episodio della sua infanzia che riguarda la donna in bici è reale al 100%.

Confronto agli altri personaggi presentati finora, Evan non ha traumi familiari alle spalle, eppure è quello che ha fatto le scelte più contorte di tutti.

Ho lavorato parecchio sul suo vissuto e sul suo approfondimento psicologico, spero comunque che con questo primo squarcio vi abbia incuriosite
Detto ciò, son davvero interessata di scoprire cosa ne pensate voi 😁 ma curiosissima! A voi le ardue sentenze
Vi avviso pure che da qui in poi possiamo dare il via alla trama 🥳🥳🥳🥳🥳🥳🥳🥳🥳
Nota importante: la storia non è un thriller ma un romance, è che per introdurre Evan dovevo un attimo spiegare il tutto.
A presto

L'usignolo sul fiore di lotoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora