2 Sognare sembra assurdo

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Camille

La casa dei Miller le era sempre sembrata poco accogliente, una residenza fredda e quasi immacolata, mantenuta scrupolosamente pulita fin dal suo primo sguardo. Tale pulizia era merito delle domestiche che vi avevano prestato servizio, un compito che ora era affidato a lei. Era una vera fortuna aver trovato un lavoro del genere. Raccolse gli stracci a quadri, li posizionò nel secchio e lo ripose nella stanza usata come sgabuzzino, poi scese silenziosamente al piano inferiore. La signora Miller, seduta elegantemente sul suo divano, sfogliava svogliata una di quelle riviste patinate e luccicanti. Non sapeva come facesse a non sgualcire i cuscini appena rassettati né a sgualcirsi lei stessa in verità, il tubino che indossava sembrava appena uscito dalla boutique di lusso dove lo aveva sicuramente comperato. Aveva un'aria così composta ed elegante. Camille si domandò se anche appena sveglia avesse quell'aspetto e la sua mente le rispose affermativamente, in fondo i prodotti di bellezza che ricordava di aver visto in bagno a qualcosa dovevano pur servire. Si schiarì la voce per richiamare la sua attenzione, la signora Miller alzò gli occhi dalla sua rivista e la fissò con uno sguardo che Camille faceva fatica a reggere per più di cinque secondi.
"Hai fatto quattro ore oggi."
La sua era una constatazione, non una domanda. La vide alzarsi dal divano e dirigersi verso la poltrona su cui era poggiata la sua piccola borsa luccicante dall'aspetto pressoché nuovo. Con una mano dalle unghie laccate di rosso la vide frugare nel suo portafoglio color vinaccio, lo stesso colore del suo vestito, forse doveva essere patita di quel colore, pensò Camille distrattamente, o forse, era una sfumatura che andava di moda in quel periodo. Intravide le sue carte di credito e si chiese se le usasse tutte quante, a lei ne sarebbe bastata anche una sola. Prese due banconote e gliele porse. Non un sorriso, né un cenno di approvazione, ma non importava, pagava bene e puntuale, era quello l'importante.
Salutò la signora Miller con un flebile arrivederci, uscì fuori e si incamminò verso la fermata dell'autobus gettando lo sguardo verso le numerose villette a schiera incredibilmente belle ed eleganti.Pioveva, ma non le importava; con quell'aspetto trasandato, che male avrebbero potuto fare alcune gocce di pioggia su dei capelli già sporchi e impolverati?
Seduta sull'autobus, si lasciò cullare dal rumore delle ruote sull'asfalto, le dolevano i piedi, si sentiva incredibilmente stanca. Il rumore lontano di un tuono le giunse alle orecchie come se fosse ovattato, forse perché era sfinita e aveva chiuso gli occhi, o forse perché la sua mente era occupata da un altro pensiero. Stava pensando a domani. In realtà, da quando aveva ricevuto quella lettera, non aveva fatto altro che pensarci. Il suo primo giorno al college. Non aveva mai pensato di farcela; nell'ultimo anno di liceo, l'unica borsa di studio ricevuta era quella di Cornell, centocinquanta dollari. Non le sarebbero bastati neppure per la prima settimana. Eppure, era una studentessa eccellente, con voti pieni in pagella. Poi, il colpo di fortuna: una vera borsa di studio, degna di questo nome.
Scese alla solita fermata, quella che si trovava a pochi isolati da casa sua e si incamminò a piedi verso le palazzine residenziali malconce, le stesse su cui aveva poggiato gli occhi per diciotto anni. L'ascensore era di nuovo fuori uso, si fece cinque rampe di scale a piedi, ma non aveva il fiatone, era abituata. Aprí la porta e notò subito la figura di sua madre che saettava allegra per la piccola cucina, aveva le cuffie alle orecchie e andava a tempo di musica con la testa. Capì subito che era di un umore più buono del solito e quello non era necessariamente un bene. Non appena sua madre la vide sgranò gli occhi, si tolse le cuffiette dalle orecchie e la apostrofò con quel nomignolo che Camille conosceva fin troppo bene.
"Mon chéri, ho fatto la spesa!"
Adagiò la borsa sulla sedia e si levò le scarpe fradicie lasciandole sul pianerottolo. Ieri aveva pulito casa e non voleva che si sporcasse. Aprí il frigo e diede una sbirciata al suo interno, patatine fritte e birra, quella era la concezione che sua madre aveva di spesa.
"Che cosa dovremmo farci con questa roba?"
Camille aveva un'indole mite e pacata, ma se c'era una persona che era in grado di farle saltare i nervi in meno di un batter d'occhio quella era proprio sua madre. Non ottenne neppure una misera risposta, solo una scrollata di spalle. La vide dirigersi in bagno verso il loro vecchio tavolo da toeletta. Non le chiese nulla, sapeva già quello che sua madre si stesse cimentando a fare, il solito rituale che si svolgeva almeno quattro sere a settimana. Rimase a guardarsi intorno nel piccolo appartamento e si sentì di colpo avvilita. In quel bilocale, con la caldaia che faceva le bizze, anche sognare sembrava assurdo. Sua madre non era mai stata in grado di badare a lei, non era in grado di badare neppure a se stessa. Eterna adolescente, aveva passato la sua intera esistenza a vederla volteggiare tra un partner e l'altro. Lavori precari, licenziamenti lampo, idee strampalate, nuovi amanti e conto in banca prosciugato. La scaletta era sempre quella. Posò di nuovo lo sguardo su di lei, la vide passarsi il rossetto sulle labbra e spruzzarsi le ultime gocce di colonia scadente. Come spesso accadeva rimase a osservarla perché era in quei momenti che Camille riusciva a scorgere appieno la sua strabiliante bellezza. Era grazie a quella se riusciva a ottenere tutto ciò che voleva come il pagamento dell'affitto rimandato o gli stuzzichini regalati quelle poche volte che andavano a pranzo da Wesley. Bastava battere le ciglia, imbronciare le labbra in maniera sensuale, una mano che scompigliava i capelli tinti di biondo
et-voilà, era fatta. Camille si sentiva sfortunata persino in quello perché con la sua carnagione pallida, i capelli di un comunissimo castano e gli occhi marroni non si sentiva nulla di eccezionale. Non aveva nemmeno le forme di sua madre, era magra e legnosa. A volte le balenava nella mente che forse somigliava più a suo padre. Peccato che se ne era andato quando lei era troppo piccola per ricordarlo. Ogni tanto fantasticava su come sarebbe stato vivere con un padre presente e amorevole invece che con una madre frivola e irresponsabile. Si guardò per la milionesima volta le ginocchia sporgenti e per la milionesima volta pensò che probabilmente le aveva ereditate da lui.
Quello che sapeva di suo padre era che era solito gironzolare nei locali notturni. Uno sguardo, un sorriso, un drink di troppo e be', lei era stata la conseguenza. Sua madre l'aveva chiamata con un nome francese, come il suo.
"Arielle e Camille sono nomi raffinati."
Le aveva spiegato così una volta mentre era intenta a strapparsi con una pinzetta i peli delle sopracciglia. Peccato che di elegante avevano solo i nomi, per il resto non vedeva un grammo di raffinatezza né in sua madre e nemmeno in lei per essere onesti.
Mamma Arielle era senza dubbio un disastro su tutti i fronti però Camille sapeva che in fondo le voleva bene, a suo modo certo, ma le voleva bene.
Insomma, non poteva essere altrimenti, non l'aveva desiderata certo, ma l'aveva pur sempre creata lei, era uscita dal suo ventre, un amore viscerale, così di solito era. La nota negativa era che quell'amore non lo vedeva quasi mai.
Eppure, quando aveva ricevuto la borsa di studio per la Brown, lei era lì, seduta di fronte a lei, fumava una sigaretta impregnando di fumo la sua finta pelliccia leopardata. Nelle movenze e nell'atteggiamento sembrava sempre uguale, ma quella volta erano i suoi occhi a essere diversi. Aveva uno sguardo che Camille non le aveva mai visto.
"Devi andarci, tu sei intelligente, migliore di me e di tutta questa merda."
Quello, aveva spinto Camille a fare quel salto. Si era sentita forte, indomabile.
Eppure, dopo l'eccitazione iniziale, le preoccupazioni pratiche le erano cadute addosso. La camera nei dormitori per esempio. Non poteva permettersela e quello significava che ogni mattina avrebbe dovuto farsi venticinque chilometri per arrivare in orario, sempre che l'autobus fosse stato puntuale, il costo spropositato dei libri, oppure il suo abbigliamento. Camille non era mai stata attaccata a quelle cose, preoccuparsi di cosa indossare per lei equivaleva a essere come sua madre, ma quella volta il pensiero di dover indossare i suoi maglioni sgualciti l'aveva fatta stare male. Mamma Arielle Sua per l'occasione le aveva comprato una gonna talmente corta che le si vedevano le natiche asserendo che era davvero fantastique. Guardò sulla sedia il suo jeans e il maglione anonimo blu notte che aveva deciso di indossare. Sarebbe sembrata una poveraccia, ne era certa.
Dalla finestra della sua camera guardò il cielo, il temporale era appena finito, in lontananza comparve uno sfacciato arcobaleno, quasi a prendersi gioco di tutta quella pioggia. Lo guardò e lo riguardò ma nulla, non riusciva a vederci nulla di magico. Quando vedi nero anche le sfumature più vivaci non sembrano poi così belle.

Ed ecco che abbiamo conosciuto Camille

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Ed ecco che abbiamo conosciuto Camille.
Situazione del tutto diversa da quella di Nora, eppure qualcosa le accomuna. Il senso di inadeguatezza forse, oppure la voglia di cambiamento.
Nora ha un padre ricco, Camille fatica ad arrivare a fine mese, ma a entrambe manca una figura genitoriale.
Arielle, ossia la mamma di Camille, be', io la amo, non so nemmeno io il perché ma mi piaciuto scrivere di questa donna volgarotta.🤣
Io adesso ho un po' di ansietta perché il prossimo capitolo c'è, ecco... Lui. Ci ho lavorato parecchio! Dopodiché qualsiasi altro personaggio verrà presentato a trama già iniziata, capirete da sole se sono importanti (dettaglio arcobaleno).
A presto ❤

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