Prologo

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Erin Fenya Ivanov, Villa Ivanov, Mosca-Russia.

Mancava davvero poco per ripartire e tornare all'Accademia, così poco che quel sabato sera avevo deciso di trascorrerlo con i miei genitori. Sì, con i miei genitori. Strano a diciassette anni, vero? Ma non è che avessi molta scelta: i due gemelli Gennady e Ella erano troppo occupati con lo studio, avendo come massima aspirazione il diventare due chirurghi di fama mondiale, il piccolo Fillip a dodici anni trascorreva il suo tempo con Vanja, l'altro mio cugino, mentre Aleksei era in giro con i suoi amici a rimorchiare qualcuna per la serata.

Aleksei aveva sei mesi in meno di me, ma dimostrava due anni in più, e non di rado mi trattava come una bambina.

Scacciai dalla testa quei pensieri e accarezzai la mano rilassata di mia madre appoggiata di fianco alla mia sul bel divano in pelle della villa; si girò a sorridermi: trentanove anni ed era bellissima con quel caschetto biondo ghiaccio e quegli strabilianti occhi verdi.

Non era difficile comprendere perché papà fosse caduto ai suoi piedi tanto facilmente dentro quel manicomio e non era nemmeno così difficile comprendere il contrario.

Appoggiai la testa sulla spalla dell'uomo al mio
fianco e sospirai, continuando a guardare il film che avevamo scelto per quel periodo natalizio. Guardai il salotto e sospirai ancora: la nostra abitazione era immensa, e non solo perché divisa in quattro diverse parti per mio padre ed i suoi fratelli, ma perché ne avevano da sempre costruita una vacante per tutti i loro figli. Difatti, noi cugini ci eravamo trovati a vivere gomito a gomito fin dall'epoca dei pannolini.

Un po' troppo vicini, forse.

Pensai immancabilmente ad un volto particolare, ma scacciai lontano l'idea.

Mio padre, sì, stavo parlando di mio padre, il trentottenne più astuto che avessi mai conosciuto nei miei primi teneri diciassette anni e il più bello; ero di parte? Questo era ovvio, ma era davvero bello, perché nonostante la sua freddezza esteriore in realtà era così dolce e tenero, che a stento non lo scambiavi per un omino di pan di zenzero.

"Quanti giorni mancano?" Papà si girò verso di me e sorrise senza accorgersene alla figura minuta di mamma ormai addormentata. "Prima di ritornare all'accademia?"

"Mh, cinque, papa," risposi in russo. Sapevo che mia madre fosse anglosassone e avesse vissuto in America, così come mio padre, ma quei giorni erano ormai lontani e all'interno della villa Ivanov si parlava solo il russo. "Cinque giorni."

"Mi sembri preoccupata."

"Oh, no." Fui presa un po' in contropiede, ma gli sorrisi ugualmente. "È che non voglio, tu e mamma avete fatto così tanto per me, mi dispiace sempre, tutto qui."

Il bello dei miei genitori? Erano così giovani che a stento sentivo il dovere di utilizzare dei filtri per parlargli.

"E tra il tutto sono comprese quelle dannate sfumature lilla che hai sui capelli e i piercing che ci siamo fatti insieme?"

Mi trattenni dallo scoppiare a ridere ad alta voce.

"Esatto." Un giorno, durante le vacanze estive dei miei quindici anni, avevo chiesto a mio papà se potesse accompagnarmi a fare il piercing al naso: un semplice anellino argentato alla narice destra; tre alle orecchie: l'anti-tragus, il rook e l'helix , adesso riempiti con tre anellini di diamantini bianchi e poi il side labret. In cambio lui aveva deciso di farsi il piercing al capezzolo ed io ero scoppiata a ridere proprio di fronte al proprietario del negozio, perché per quanto facessimo parte della mafia e mio padre ne fosse il Consigliere, mi era sembrata una richiesta assurda e da ragazzino annoiato. "Ti ricordi la faccia di mamma? Soprattutto per questo?"

Finti legami di sangue|THE NY RUSSIAN MAFIA #5Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora