Capitolo 8 Cameron

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La notte negli ospedali sembra non passare mai, come se tutto intorno si congeli, rendendo insopportabile e crudele l'attesa.

I lunghi corridoi bianchi e vuoti, il rumore dello scalpiccio dei passi degli infermieri e il lamento dei malati danno una sensazione di vuoto, come se tutti i pensieri positivi fossero spariti e ciò che desideri di più è poter andar via.

Lei è chiusa in una di queste stanze, da sola.
Entro domani sarà dimessa e potrà tornare alla sua vita quotidiana. Per fortuna la ferita inferta non è stata così profonda da recarle altri problemi. Fra non meno di pochi giorni tornerà a scuola; tornerà a stare con i suoi amici; tornerà a passeggiare mano nella mano con l'idiota... La cosa mi infastidisce non poco.

Ma è quello di cui lei ha bisogno: una vita tranquilla, lontana dal male e da ogni tipo di sofferenze e, soprattutto, lontana da me.

Sono patetico, ogni volta che vado via non riesco a fare a meno di tornare indietro. Ogni anno mi costringono a una tortura che, come una droga, non riesco a farne a meno: vederla cresciuta.

Un'anziana infermiera molto dolce, mi fa entrare di nascosto nella stanza di Bella.
Crede che io sia il suo ragazzo e la cosa non mi dispiace.
Entro piano cercando di non far rumore. La stanza è molto piccola e buia, le pareti bianche sono divise da una striscia azzurra quasi invisibile. C'è un armadio a tre stante al centro dei due letti. Lei è l'unica paziente ricoverata in questa stanza.

Osservo rapito la sua figura addormentata sul letto.
Avanzo cautamente verso di lei, avvicinando la mia mano al suo viso. L'accarezzo, il contatto con la mia pelle fredda e la sua tiepida mi provoca un brivido.

"Se ora ti svegliassi che potrei dirti?
Cosa proveresti nel vedermi in questa stanza?
Ti ricorderesti di me come l'uomo a cui hai pestato il piede in chiesa o come chi ha quasi ucciso un essere mostruoso tanto quanto me?"

Mi passo una mano sulla tempia esasperato cercando di dominare l'impulso di mettermi ad urlare.

"Non dovresti stare in questo maledetto letto, non dovresti avere quella ferita sul collo. Vorrei prenderle io le tue sofferenze. Dalle a me!
Dammi tutto il tuo dolore. Io sono morto. Non le sento le ferite.
L'unico dolore in grado di ferirmi è vederti soffrire".

Un fascio di luce proveniente dalla finestra illumina il suo viso. Per un attimo fuggente è come se fosse un angelo illuminato dal bagliore della luce celeste. Questo mi ricorda del motivo per cui io devo starle il più lontano possibile.

L'ho guardata crescere per molti anni e ogni anno era diversa. Ho visto allungare i suoi capelli castani, sempre spettinati o raccolti in una coda alta; le sue labbra rosee e carnose sempre piegate in un sorriso; il suo modo buffo di arricciare il naso quando si arrabbiava. Non riesco a trovare una parte in lei detestabile o fastidiosa: sono completamente perduto.

Forse è solo la mia dedizione alla promessa fatta a un amico; forse mi sento in debito così tanto da dover proteggerla a tal punto di non desiderare altro; forse è tutto nella mia contorta immaginazione.

Mi siedo sulla poltrona buttando la testa all'indietro, irritato dai miei pensieri.
Torno a guardarla appoggiando la testa sul bracciolo della poltrona, senza distogliere lo sguardo da lei, attorno a me tutti i rumori sono estranei al mio orecchio, l'unico suono che ora raggiunge il mio udito è il respiro di Bella. L'unico suono in grado di placare i miei nervi e tutto lo stress degli ultimi giorni.

Non mi rendo conto neppure del tempo che è passato quando le prime luci dell'alba attraversano la fessura della finestra.
L'ospedale sembra riprendere vita e lo scalpitio degli zoccoli dei dottori passano ininterrottamente per i lunghi corridoi, seguiti dagli infermieri che trascinano dietro di sé delle barelle.

Ricordi imbrattati di RossoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora