Desiderare la morte #1

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Ho sempre desiderato ardentemente di morire. Quando sostavo vicino alla fine, qualcosa s'impossessava di me e mi faceva gioire come non mai. Come un suono cristallino e grave nella sua universalità, il sentore di star facendo qualcosa di meraviglioso si insinuava nel mio petto. Il cuore mi sussultava sotto alla carne come non mai, inquieto e felice. I battiti correvano, saltavano, lasciandomi senza respiro. Era una sensazione di onnipotenza, un qualcosa di grandioso.

Mi sentivo come se stessi sputando in faccia a Dio, e come se questa cosa fosse lecita, come se fosse una barzelletta di cui anche l'Entità Superiore avrebbe riso.

La mia vita era così; come quella barzelletta. Mi sentivo vicina al compimento di qualcosa di molto grande e che, in altre circostanze, sarebbe stato fuori dalla mia portata.

Ci provai varie volte, ma ovviamente senza successo. Morire era più un hobby morale che fisico; probabilmente non ne ero capace perché sono umana, e la mia coscienza ha sempre cercato di frenarmi. Ci sono cose che neanche il mio Io reale – che poi: cos'è l'Io? – mi può impedire di fare, ma probabilmente la morte è una delle poche cose che la parte di me cosciente può invitarmi a non provare. Questa cosa mi faceva impazzire.

Era come stare in un limbo di consapevolezza e dolore, e non poterne uscire perché la parte razionale non voleva aiutarmi a stare meglio. Morire mi avrebbe fatto stare meglio, sì: ne ero soddisfatta e sicura. Dopotutto, nella vita le scelte sbagliate non sono poi così improbabili.

Non mi sentivo capita da una parte di me stessa che ritenevo importante. Ero delusa dal mio senso della sopravvivenza. Qualcosa mi faceva soffrire irrimediabilmente, e questa cosa era la mia vita. E tutto questo bastava a farmi desiderare l'attimo d'adrenalina, il freddo nelle ossa, il sentore che tutto stava per compiersi ed ero solo io a poterlo fare.

Certe volte, ricordando quei momenti, mi perdo a sorridere di quella mia stupida convinzione. Sebbene non sia passato molto tempo dall'ultima volta che il mio corpo ha sfiorato la morte, mi senti in dovere di ammettere che l'ideale che ho sempre perseguito – a proposito di questi dolori e sapori – è invece un qualcosa di puramente animale, qualcosa fuori dalla mia portata. Crescendo ho rivisto in quei miei comportamenti un qualcosa di disperato. Volevo attenzioni, volevo essere compresa.

E sebbene io sia umana – e quindi è lecito ch'io desideri essere vissuta dall'intera esistenza collettiva – il profumo animale del brivido, della scoperta, ancora mi sovrasta. Anche se credo ormai morta quella parte di me – o almeno, ferma da qualche parte nella mia mente – c'è sempre qualcosa che mi riporta la sensazione in gola, che mi fa battere il cuore come il quel modo inspiegabile e bellissimo.

L'amore. Ecco cosa mi riportava in mente il sentore di quella stessa avventura metafisica. Ho sempre desiderato l'amore come la morte, o forse anche di più.

Una parte di me urla, si dimena, cercando di smentire ciò che ho detto sopra: no, io – dice – voglio e ho sempre voluto l'amore più di ogni altra cosa al mondo. Ed è forse anche questo il motivo della mia infatuazione inumana verso la morte. Sono un animale sociale, sono fatta per difendermi dall'oblio, ma quel qualcosa è più forte di me e dell'Entità Superiore – è più onnipotente di un qualsiasi dio, di una qualsiasi forma immateriale di energia.

Nei giorni in cui ero appena tornata a casa di mia madre mi sentii di riflettere su certi punti del mio discorso interiore.

Ero davvero ancora assuefatta dal mio dolore tanto da voler morire, o ero pronta per amare ed essere amata di nuovo?

Sentivo di poter andare avanti per davvero, ora, oppure non ero pronta a prendermi la responsabilità di vivere ancora? – Anche perché, diciamocelo, cos'è "vivere"? Passare la vita in un certo brodo di dolore è come non vivere affatto.

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