Abbozzo tra le ombre

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Fine gennaio 2020, l'ennesimo dolore che mi stava portando al suicidio morale e fisico. La fine della mia adolescenza, e una nuova paura: il timore di diventare donna. Il timore di addormentarsi e non svegliarsi più nella stessa realtà.

L'unico modo in cui potevo risvegliarmi era rileggere una poesia. Kavafis l'aveva scritta per persone come me – ne ero sicura. E ad ogni lettura percepivo sempre di più quel filo che mi riportava alla sua anima, al suo sentimento, e quasi riuscivo a vedere il suo viso invaso dai ciuffi corvini dei capelli spettinati – concentrato, ispirato – mentre l'uomo che era allora tentava un salto nel buio. Una semplice poesia scritta da un semplicissimo uomo di origini greche.

Certe persone non si rendono conto di come una loro parola possa cambiare l'umanità.

Ormai ero perduta, o quasi. Dovevo sorreggermi e trovare la forza per andare avanti, sebbene vivere con mia madre fosse un grande aiuto di per sé. Decisi allora di ricominciare da lì, dove la mia consapevolezza ogni volta tornava a galla e mi regalava la compassione profonda della mia anima, l'amore incondizionato di una parte di me, ed una speranza inspiegabile.

Ho sentito di soffrire. Avevo solo dodici anni e ho cominciato a capire che il mondo aveva anche delle sfumature che tendevano all'ombra. Non mi piacevano le ombre; tutto quel nero, quei grigi opachi e densi, mi ricordavano che stavo crescendo e che non ero l'unica a farlo, ma che ero lì, e che per la prima volta vedevo per davvero cosa mi sarei dovuta aspettare dal mio futuro.

Avevo dodici anni e soffrivo già di depressione. Solo ora, dopo sette anni, capisco cosa mi faceva stare male – e cosa, in seguito, mi portai dietro fino all'anno scorso come se fosse morto, caduto nel baratro. Ma il mio dolore era vivo e restava lì, nell'ombra, dove io potevo solo immaginare che fosse. Dove non lo vedevo, ma lo potevo sentire.

In quei giorni di ripresa spirituale cominciai a setacciare il mio passato in cerca di una risposta alla mia sofferenza prolungata. Cominciai dalle origini del dolore, da dove tutto aveva preso forma e io – incosciente di ciò che stava succedendo – avevo cominciato a diventare una donna.

Ricordai che avevo solamente dodici anni quando il male che sentivo era diventato abbastanza grande da non poter essere sopportato in silenzio. Avevo già una mezza idea di ciò che volevo fare della mia vita – volevo scrivere, diamine! – e tutto quello che mi circondava non faceva che ricordarmi che ero solo una bambina, e che non avrei mai raggiunto i miei obbiettivi. Era come se ogni cosa mi stesse dicendo che la mia vita non era un film, e che non sarei stata persona migliore di coloro che mi circondavano.

Tutto urlava dolore. Tutto, tranne una poesia.

Kavafis mi ha salvato la vita. Che siano le sue parole – sebbene tradotte – o il ritmo della nenia che ho quasi imparato a memoria, non lo so ancora. Leggendo quella sua poesia mi sono sentita compresa, e ho sentito anche di far parte di una realtà che potevo manipolare. Il mio Io era un quadro, e le mie ombre erano mie amiche; ero stata io l'artefice del mio mondo, del mio dolore. Ed anche se sono umana e non posso fare tutto al meglio – non posso essere perfetta – so che posso migliorare finché ho vita in corpo. Questo, io l'ho imparato da quella maledetta poesia.

Quando ti metterai in viaggio per Itaca

Devi augurarti che la strada sia lunga,

fertile in avventure e in esperienze.

Strada lunga? Questa cosa può scoraggiare chiunque. Per prima me, ch'ero una bambina che stava uscendo dal guscio della perfezione dell'infanzia – avevo appena scoperto il dolore, no? – e che pensava al suo sogno come a qualcosa di perfetto e irraggiungibile. Se, poi, Kavafis ci si metteva d'impegno, tutto poteva andare a rotoli. Mi disse, con questa poesia, che la strada sarebbe stata lunga. Ed io, inevitabilmente, cominciai a scoraggiarmi. Impulsiva com'ero non riuscii a trattenere un senso di insoddisfazione quando lessi i primi versi.

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