Uno su venti

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Non è possibile. Non è proprio possibile. Questa cosa è sbagliata e io mi sto facendo delle seghe mentali inutili. Mi sono sbagliato, errare è umano, dopotutto. Anche Daniele si è sbagliato. Sicuramente, anche lui si è sbagliato. O magari no, magari lui è davvero attratto da me. Ma io no, io non sono gay, gli uomini non mi piacciono.

Sto fissando da dieci minuti questo paragrafo di "Siddharta", ma non sono riuscito a leggerne neanche una parola, troppo distratto da quel bacio. Assolutamente sbagliato, io mi sono sbagliato. Non c'è altra spiegazione.

Alla fine, non è neanche stato un granché come bacio, non che abbia metri di paragone; Daniele è super irritante sotto certi punti di vista, non andrebbe bene per me, che cerco una pace mentale relativamente stabile; io sono troppo silenzioso e tranquillo per lui, che è una forza della natura, instancabile e incontrollabile. Sì, sì, tutto sbagliato. Io non sono gay, fine. Dio ha creato donne e uomini perché possano stare insieme, se no avrebbe fatto un mondo di sole donne e un altro di soli uomini. Due uomini non procreano, non danno continuità alla specie, il retto anale non è fatto per essere penetrato, come la vagina. In più, rapporti anali sono haram, sono peccato. È anche vero che l'anima non ha sesso, non ha distinzioni, ma Daniele rimane un uomo e se i nostri spiriti sono fatti per stare insieme, forse dovremo aspettare di essere morti e di ritrovarci in Paradiso. O all'Inferno, molto più probabilmente. Sospiro.

Sono molto angosciato. Non so bene valutare l'entità dei danni causati, ma comprendo perfettamente che siano danni piuttosto ingenti. Merda. Dio avrebbe dovuto farmi nascere con una cosa in meno: o niente omosessualità, o niente Islam. Non sono due cose che vanno a braccetto, non sono due cose che stanno bene insieme. Chiudo gli occhi e nascondo la faccia tra le pagine, inspirando il profumo di carta. Dio non avrebbe dovuto fare proprio niente, sono io quello in errore, non Dio. Lui sa quello che fa, insomma, è Onnisciente, se non sa Lui quello che fa, come posso pretendere di saperlo io?

Il citofono suona e mi fa sobbalzare. Papà, che è appena entrato in casa e si sta allentando la cravatta, risponde.

«Adam, è Dario» mi dice lui, dopo aver ascoltato un paio di secondi. «Che faccio? Vuoi farlo salire?» mi chiede. Scuoto la testa, rassegnato in partenza.

«Digli che scendo io» mormoro, andando all'ingresso e mettendomi le scarpe. Esco di casa e scendo le scale, con i piedi di piombo. So già di cosa vuole parlarmi e non ho per niente voglia di affrontare l'argomento.

Appena esco dal portino del palazzo, mi trovo Da con le mani sui fianchi e un'espressione corrucciata.

«Ora tu mi spieghi che cazzo vi è successo, a te e a Daniele!» sbotta, senza salutarmi o aspettare che lo faccia io. A sentire il suo nome, mi viene un mezzo colpo, benché mi aspettassi questa conversazione, e vorrei solo sotterrare la testa tipo struzzo e farmi soffocare dall'asfalto.

«Non è successo niente» provo a mormorare.

«Oh no! Col gran cazzo che io mi accontento di sta stronzata mega galattica che mi hai appena rifilato! Non ci provare nemmeno, Dado!» esclama, sempre più furente. Non rispondo, non voglio farlo ed evito con cura il suo sguardo, fissando la punta delle mie scarpe. «Bhe? Stai aspettando di fossilizzarti? Io resto qui finché non mi dici tutto per filo e per segno perché io mi sono abbondantemente rotto le palle!».

In parte lo capisco, perché da quel pomeriggio a casa sua, io e Daniele non ci siamo praticamente più parlati, se non per salutarci brevemente e con imbarazzo. Anche se siamo tutti e tre insieme, non ci caghiamo di striscio, non ci guardiamo neanche in faccia e per Dario la situazione deve essersi fatta pesante, perché anche con lui siamo un po' imbarazzati e le nostre conversazioni si riducono a lui che parla tutto il tempo e a noi che saltuariamente annuiamo.

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