Parte 5

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Dylan

Una settimana di sole e stelle.

Una settimana di caldo e cielo pulito e io mi sono deciso a uscire proprio quando le nuvole fanno la loro ricomparsa.

Idiota.

Sono stato impegnato. Ancora, sempre.
Casa e rifugio sono stati la mia tana, la mia bottega. Non mi sono risparmiato, ho lavorato sodo fino a quando il materiale ha iniziato a scarseggiare; i colori, le setole consumate dei miei pennelli mi guardavano chiedendo pietà.

Così sono uscito, ho attraversato le strade di New York alla ricerca del materiale utile per proseguire sulla strada che ho iniziato a tracciare.

Morale della favola: zaino pesante sulle spalle pieno zeppo dei miei tesori, rintanato in metropolitana nella speranza che fuori smetta di piovere.

Idiota.

Ho il culo premuto su una sporgenza da oltre un'ora, tra le mani un album nuovo di zecca e una matita a scatto, e lavoro.

La gente attorno a me diventa maestra di vita senza neanche saperlo.
Li vedo correre, cercare riparo dall'acquazzone che al piano superiore impervia senza accennare ad arrestarsi, e io imparo.

I bambini con i loro stivaletti di gomma colorati, sgargianti, sfoggiano sorrisi per la promessa silenziosa... Saltare le pozzanghere diventa inevitabile con questo tempo.
I ragazzi, stretti nei loro giubbotti, gocciolano senza problemi, coraggiosi, sul pavimento anonimo, osservando i cellulari tra i loro palmi e le cuffie calcate sulle orecchie riparate da cappucci scuri; sono qui e in un altro mondo nello stesso istante.
Uomini d'affari, ventiquattrore gonfie di documenti importanti, imprecano contro il vento che gli ha rovinato l'ennesimo ombrello. Irreparabili vengono seminati come fiori spezzati nei cestini creando bouquet dalle tinte serie.

Sono un alunno meticoloso. Prendo appunti veloci, rapidi, consapevole che quella fiumana di insegnanti sparirà alla mia vista appena si spalancheranno le porte del prossimo vagone in arrivo sui binari. Li cancellerà dalla mia vista, come un docente che alla fine della sua lezione pulisce malamente la lavagna con una vecchia, sporca spugna intrisa di caratteri ormai illeggibili, di cui lei si impregna in nuvole di polvere bianca.

Un rumore di sottofondo annuncia l'arrivo del treno sotterraneo; uno sbuffo e le ante a soffietto risucchiano i miei soggetti, li porta lontano dai miei occhi.

Un rumore di passi affrettati e un lampo bianco impreca, prega di aspettarla.
Lo squillo del treno copre la sua richiesta e il mezzo riprende il suo viaggio, nonostante i palmi battuti sulle porte trasparenti.

Un frettoloso dietrofront e la ragazza scivola sgraziatamente in una pozzanghera lasciata dai fortunati e puntuali pendolari.

"Ma dai!"

Sorrido all'imprecazione trattenuta e mi attardo qualche istante a osservare la scena.

Volto il foglio, ormai completamente graffiato, per riscoprirne uno senza alcuna traccia e mi appresto a immortalare...

"Calliope..." Quel nome mi esce come un sussurro incredulo.

Spiazzato; il cervello si ferma, il muscolo nel petto corre.

Lei si volta, occhi al cielo esasperati, bagnata come un pulcino. E io... inizio a ridere.

"Ti faccio ridere? Magnifico! Almeno qualcuno vede in tutta questa situazione qualcosa di divertente."

Idiota.

I suoi occhi mi trafiggono, mi mettono a tacere, e io annego, vengo risucchiato nell'acquamarina delle sue iridi.

"Perfettamente Imperfetti" Volume III "Lacerata, come pioggia sulla pelle"Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora