La lettera

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Bunkie Beach era deserta, quel pomeriggio d'agosto. Solo poche ore prima il termometro registrava trentacinque gradi e la spiaggia era affollata di turisti. Poi il cielo si era rannuvolato, la temperatura era precipitata e gradualmente i bagnanti avevano fatto ritorno nei loro alberghi, visibilmente seccati per l'inatteso cambio di programma.

Un forte vento ululava per tutta la costa e dalla grande villa sopra la collina, che abbracciava in un solo sguardo tutto il litorale, i mulinelli di sabbia sollevati dal vento somigliavano a piccole ombre che si rincorrevano allegre. Un cielo nero, gravido di pioggia, incombeva minaccioso sulla maestosa abitazione in pietra bianca, come una leonessa pronta a divorare la sua preda.

Villa Bunkie Beach era una vecchia costruzione immersa nel verde, con un ampio giardino pieno di roseti che digradava dolcemente verso il mare e lunghi filari di pini marittimi che ne costeggiavano il perimetro.

Prima che il paesaggio fosse deturpato dagli innumerevoli stabilimenti balneari, creati ad uso e consumo di orde di turisti schiamazzanti e spesso irrispettosi dell'ambiente, il panorama della costa nuda e selvaggia che si tuffava nell'oceano era da togliere il fiato. La villa era situata in posizione isolata, a notevole distanza dalla spiaggia cosicché, anche nei giorni di maggiore affluenza turistica, chi vi abitava non udiva altro che un mormorio indistinto provenire dalla costa.

L'interno dell'abitazione richiamava la maestà e lo splendore dell'esterno. Una larga scalinata in pietra conduceva all'interno, attraverso un portone in legno bianco. Nell'ampio salone al pianterreno troneggiava un tavolo ovale in cristallo, sorretto da un basamento in pietra a forma di drago. Sulla destra, un divano e due poltrone con ricami dorati erano posizionati di fronte ad un grande camino antico. Dal salone si accedeva alla cucina attraverso una porta in legno e, attraverso una grande porta finestra, si aveva accesso ad una veranda con una vista mozzafiato sull'oceano.

Un'ampia scalinata in marmo nero conduceva al piano superiore.

Qui, in una delle due camere da letto, Rebecca Bonner sognava sua madre. Camminavano fianco a fianco in riva al mare, i piedi dolcemente accarezzati dall'acqua. Rebecca parlava e sua madre l'ascoltava sorridente.

Erano felici.

Nel sonno, le sue labbra sottili s'incresparono in un sorriso.

Il suono del campanello al piano di sotto spezzò l'incanto e Rebecca si rigirò nel letto, infastidita, rimboccandosi ancora di più le coperte, come se quel gesto avesse potuto scacciare il fastidioso visitatore.

La notte precedente non aveva chiuso occhio e si era rigirata invano nel letto fino a notte fonda, nella vana speranza di prendere sonno.

All'alba, ormai rassegnata al fatto che quella notte Morfeo non l'avrebbe cullata tra le sue braccia, si era alzata e aveva cominciato a sbrigare le faccende di casa, fino all'ora di pranzo.

Nel pomeriggio aveva fatto una lunga passeggiata fino al porto, intimamente grata al maltempo che aveva fatto volatilizzare la massa di turisti che in quei giorni gremivano come formiche Bunkie Beach.

La lunga camminata l'aveva ritemprata e, di ritorno a casa, si era infilata a letto, crollando subito in un sonno profondo.

Il campanello suonò di nuovo.

Rebecca aprì gli occhi, intontita e si alzò a sedere di scatto.

Al terzo squillo saltò fuori dal letto, si infilò la vestaglia azzurra e si scaraventò in gran fretta giù dalle scale, rischiando di rompersi l'osso del collo scivolando sull'ultimo gradino.

Piuttosto seccata, aprì la porta e si trovò davanti un ometto calvo intento a scarabocchiare qualcosa su un cartoncino giallo.

"Rebecca Bonner?" – domandò alzando gli occhi.

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