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Al mio risveglio, avevo il collo indolenzito per aver tenuto il capo reclinato contro il letto di Daniel tutta la notte. La prima cosa che feci, ancor prima di realizzare che mi trovassi nella sua stanza, fu allungare le gambe sul pavimento e inarcare la schiena, in un vano tentativo di sgranchirmi. Poi, mi passai le mani sugli occhi per rimuoverne la sabbia e guardai dritto di fronte a me: Daniel era seduto con la schiena contro il muro antistante, una gamba stesa a terra e l'altra piegata al petto; mi stava guardando di rimando, con un'espressione indecifrabile.

«Buongiorno» sussurrai, la voce arrochita dal sonno.

«Buongiorno» replicò con l'accenno di un sorriso. Ciononostante, avevo ancora la sensazione che qualcosa non andasse, che fosse per qualche motivo sovrappensiero.

«Stai bene?»

Lui annuì e chiuse gli occhi, quindi abbandonò il capo contro la parete alle sue spalle, l'iperestensione del collo metteva in risalto il suo pomo d'Adamo. Ripensai, senza volerlo, alla sera precedente: la sua lingua intrecciata alla mia, le sue mani sui miei fianchi, il suo naso che mi sfiorava la pelle mentre seppelliva la bocca nel mio petto. Il ricordo mi provocò un inevitabile mezzo sorriso, che potevo permettermi di esibire soltanto in situazioni come quella: quando Daniel non mi stava guardando. Ero stata una vigliacca, a baciarlo quando era ubriaco. Ciò malgrado, per chissà quale ragione ancora non riuscivo a pentirmene.

Quando mi alzai, decisa ad andarmene e spezzare quella bolla di quiete dalla quale eravamo avvolti, notai che Daniel aveva bevuto la tisana che gli avevo preparato, perciò afferrai il bicchiere e scesi dal soppalco per riporlo nel lavello della sua cucina. Per la seconda volta da quando lo conoscevo, mi chiesi da quanto fosse rimasto sveglio a fissarmi dormire. Era forse un pensiero egoistico, ma avevo l'impressione che ci fosse qualcosa sotto che lui ancora non mi aveva detto; ogniqualvolta avevamo dormito l'uno al fianco dell'altra, poi aveva assunto un comportamento strano, come inebetito. Ma forse era soltanto una mia impressione.

Colsi l'occasione per controllare l'orologio e cercare di mettere ordine ai miei pensieri: accantonai, soltanto per il momento, il mio senso di colpa per aver baciato Daniel, poi scandii mentalmente la mia giornata ora per ora; avrei dovuto far visita ai miei e nel pomeriggio incontrare i miei amici per una passeggiata al Golden Gate Park. Avevo la serata libera, e ciononostante l'avevo già pianificata nel dettaglio: avrei fatto un lungo bagno, messo su della musica, letto un libro e mi sarei addormentata guardando un film. Niente di speciale, ma il giorno seguente avrei avuto il turno di mattina, al Bazaar, e non volevo svegliarmi nella mia versione bradipo-zombie.

Daniel si offrì di riportarmi a casa e lungo la strada mi offrì la colazione. Non parlammo molto, ma non per colpa sua: semplicemente, non c'era molto da dire ed io avevo il timore che mi sarei lasciata scappare qualcosa riguardo a ciò che avevo fatto e che lui non ricordava - o almeno così speravo.

«Abby,» mi richiamò dopo che lo ebbi ringraziato del passaggio e fui scesa dalla sua auto, «grazie per essere rimasta, ieri sera.»

Annuii soltanto, lo stomaco chiuso dal senso di colpa: io gli avevo fatto un torto imperdonabile e lui mi stava ringraziando. Mi sforzai persino di sorridergli, prima di dirgli che era stato il minimo che avessi potuto fare. Anche perché il peggio lo avevo già fatto.

Cercai di non pensarci mentre mi preparavo per il pranzo con i miei. Avevo portato loro dei dolcetti dalla pasticceria preferita da mia madre, che si era appassionata da poco alla cucina. Lei faceva sempre così: diventava ossessionata con un hobby, vi passava giornate intere, poi abbandonava tutto e si dedicava a qualcos'altro. Una volta era il cucito, una volta le candele fatte a mano, una volta la ceramica e poi la pittura, quindi adesso la cucina. Chissà quale sarebbe stato il colpo di genio successivo. Aveva preparato un pasto con piatti tailandesi che sarebbero stati anche buoni, se non avesse esagerato con la citronella. Mio padre aveva passato tutto il tempo a fingere che gli piacessero, per poi fare delle smorfie disgustate non appena lei voltava lo sguardo altrove. Lui, d'altronde, non era affatto il tipo da cucina orientale, era un tipo tradizionalista e schizzinoso, quando si trattava di ciò che si ritrovava nel piatto.

𝑺𝑶𝑳𝑶 𝑫𝑼𝑬 𝑺𝑨𝑻𝑬𝑳𝑳𝑰𝑻𝑰Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora