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Una volta avevo letto da qualche parte: "Non siamo mai così indifesi verso la sofferenza, come nel momento in cui amiamo." Avevo creduto per tanto tempo che amare portasse ad un'inesorabile rovina. Avevo creduto che amare significasse porre il partner prima di noi stessi e ciò comportasse una demolizione delle proprie barriere ed una perdita di senso di autoconservazione dovuti alla perfetta illusione creata dalla vita di coppia. Avevo creduto che amare permettesse all'altro di sfruttare la nostra fragilità e pugnalarci senza che noi potessimo far altro che rendergli grazie. Era ancora così. Amare ci espone a rischi che qualcuno con un briciolo di sanità mentale non correrebbe mai, ma d'altronde, l'amore induce a fare cose folli.

Ma ne vale la pena. Amare ci fa ritrovare le nostre virtù, tra cui la trasparenza e l'onestà. Non siamo mai più onesti di quando amiamo follemente qualcuno, tanto da comprendere quanto una bugia bianca faccia comunque più male di un'amara verità. Avevo quindi anche capito che amare fosse il più grande dono che si potesse fare ad una persona: donarle il nostro prezioso tempo, accettare i suoi terribili difetti, perdonare i suoi ingiustificabili errori. Amare significa rischiare, ma anche fare del bene. Ai nostri amici e familiari, al nostro partner, persino a degli sconosciuti - trattare gli altri con gentilezza e rispetto è la più grande forma d'amore che si possa rivolgere loro. A noi stessi. Amare gli altri ci dà la possibilità di godere di una così vasta accettazione di noi stessi. Le opere di bene non si compiono per compiacere qualcuno, né tantomeno per finire in Paradiso, ma per stare in pace con noi stessi, per sentirci persone migliori. Perché portare rancore e odio non fa altro che logorarci il fegato per cercare ogni forma di dannazione che renda la vita della nostra vittima un inferno. Ed è stancante. Si sta così bene, quando si ama gli altri; anche quando loro non ricambiano con la stessa cortesia.

E poi c'è la pietà. Avevo sempre pensato che essere compatiti costringesse gli altri ad amarci, ma stavo lentamente imparando che la pietà fosse un bene da concedere a tutti. Permettere loro e permettere a noi stessi di mostrarci fragili e vulnerabili è la più grande forma di umanità che possiamo dimostrare. Secondo Rousseau, l'uomo allo stato di natura possiede due principi cardine: il senso di autoconservazione e la pietà. L'amore verso se stesso ed il supporto verso gli altri. Amor proprio e compassione vanno a braccetto, poiché concedersi della sana debolezza e riconoscere la debolezza umana negli altri permettono di ripararci a vicenda. Siamo tutti un po' rotti, nel profondo. Tutti soffriamo, chi più, chi meno, e tutti meritiamo aiuto e sostegno. Riconoscere le nostre fragilità ci permette di guarire meglio e più in fretta, dal momento che ci permette di comprendere il punto da cui partire, l'epicentro del problema. Se solo ci preoccupassimo di più per gli altri, capiremmo quanto sia importante permettere agli altri di sostenerci. Se solo ci concedessimo di più di essere fragili, impareremmo ad essere più forti.

Ed io ero così fragile. Solo così fragile, mentre mi raggomitolavo sul letto. Chiusi gli occhi e sospirai profondamente, sfiorando le lenzuola pulite con la punta delle dita. Erano soffici e ruvide e profumavano di freschezza. Le sentivo pungermi la pelle dei polpastrelli e della guancia, mentre il materasso mi cullava piegandosi sotto al mio corpo. Immaginai Daniel sedersi al mio fianco, da quello che ormai era diventato il suo lato del letto e che ormai si era riappianato. Il cuscino aveva perso il suo profumo, eppure ne sentivo ancora il fantasma penetrarmi le narici prima di prendere sonno, infestando le mie notti. Lo immaginai blandirmi i capelli e lasciarmi un bacio sulla guancia, in quel mattino particolarmente solitario. Avrei dovuto andare al lavoro poco dopo, ma non riuscivo a far altro che concentrarmi sul mio isolamento e sulla mia voglia di avere Daniel con me.

Quando decisi di alzarmi, mi preparai il caffè e lo sorseggiai accostata al piano di lavoro della mia cucina. Finché il mio sguardo non si focalizzò su qualcosa abbandonato da giorni sul bancone: un foglietto. Quel foglietto. Quello che Everett Kinney mi aveva porto con l'indirizzo di Daniel, di New York. Me lo rigirai tra le mani, indecisa su cosa farne; alla fine, lo misi nella mia borsa assieme al telefono ed al portafoglio. Mentre mi preparavo per uscire, però, le parole della madre di Daniel mi costrinsero a sedermi e a prendere un respiro profondo, con mille dubbi che mi assalivano la mente.

𝑺𝑶𝑳𝑶 𝑫𝑼𝑬 𝑺𝑨𝑻𝑬𝑳𝑳𝑰𝑻𝑰Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora