Annunciai al mio collega, Francis, che stavo uscendo, mentre preparava un cappuccino alla macchinetta del caffè dietro al bancone. L'anno precedente avevo trovato lavoro in un cafè in California Street, il Bazaar. Si trattava di un locale rustico arredato in stile anni Novanta, le pareti color acquamarina che venivano distorte dall'illuminazione che filtrava dai vecchi lampadari svaniti; i tavoli in noce e le sedute di velluto blu erano le stesse da trent'anni, ciononostante riuscivano a mantenersi puliti e brillanti come il primo giorno. Il bancone azzurro, dietro il quale troneggiava uno specchio rotondo circondato dalle lavagnette con il menù del giorno, che cambiava in base all'umore del cuoco, e diversi pannelli che davano un simpatico benvenuto ai clienti, era situato sulla sinistra, mentre sulla destra della porta d'ingresso si trovavano un tamburello ed un paio di chitarre per i musicisti a cui piaceva rallegrare l'atmosfera dal tardo pomeriggio alla notte inoltrata nelle svariate serate di musica dal vivo, nascosti dalla strada soltanto da una vecchia tenda verde bottiglia. In mezzo al soffitto, una trave portante era stata trasformata in un grazioso mosaico ingiallito che riportava il logo del bar e che donava un tocco tradizionale e vissuto.
Solitamente al Bazaar io svolgevo il turno del mattino, quando si registrava il maggiore afflusso di clienti per le colazioni, mentre nella tarda mattinata, prima dell'ora di pranzo, mi prendevo del tempo per pulire e dare una lucidata, per poi lasciare il posto a Francis. Spesso facevo anche gli straordinari, quando il locale era pieno o nei giorni in cui era aperto anche la sera, per guadagnare di più, dato che avevo un affitto e delle bollette da pagare e certo non lo avrei fatto con il mio stipendio di base. Quel giorno, infatti, uscii nel primo pomeriggio, poco prima dell'orario di chiusura, quindi mi sfilai il grembiule marrone con la tazzina di caffè, logo del locale, e lo posai nel mio piccolo armadietto sul retro.
Raccolsi i capelli biondo miele in una coda frettolosa, afferrai la mia borsa e ne estrassi le chiavi del lucchetto della bici, prima di tornare a casa sfrecciando tra le auto che stavano percorrendo le strade di San Francisco nell'ora di punta, in cui i lavoratori avevano terminato la pausa pranzo ed erano pronti per tornare in ufficio. Ogni tanto mi piaceva lanciare degli sguardi verso i marciapiedi, su cui si alternavano persone vestite in giacca e cravatta anche in pieno giugno, periodo dell'anno in cui il caldo umido californiano iniziava a non darci pace, ed altre in semplici magliette e pantaloncini. Una città come San Francisco era ben eterogenea, non era tra le più affettate come New York, né tra le più disimpegnate come Los Angeles, perciò per strada si poteva incontrare qualunque tipo di persona, dal surfista a caccia di qualsivoglia genere di onda da cavalcare all'imprenditore indaffarato e costantemente attaccato al telefono. Il suo eclettismo era sicuramente uno dei motivi per cui mi piaceva la mia città. Personalmente, non pensavo di aver ancora trovato il mio posto all'interno della comunità: ero passata dal fare la spogliarellista alla cameriera, ma ancora non mi sentivo a pieno me stessa, non fuori dalle mie umili quattro mura domestiche, come se qualcosa mi mancasse.
Parcheggiai la mia bicicletta di fronte al condominio nel quale abitavo, al 965 di Sutter Street, e mentre rispondevo ad un messaggio della mia migliore amica Nada, in cui mi rammentava della serata a cui avrei dovuto prendere parte, colsi l'occasione di entrare nell'atrio, premendo una spalla contro l'androne, come un altro inquilino stava uscendo. Chiamai l'ascensore e quando si aprì calai il capo, una mano sulla parte alta del mio addome, in segno di riverenza verso una bambina che abitava nell'appartamento di fianco al mio, Kate. Fece un mezzo inchino di rimando, i riccioli biondo platino che le ricadevano sul volto da bambolina, nascondendo il sorriso a cui mancavano un paio di denti da latte, ed il vestitino rosa confetto che le svolazzava attorno alle gambe corte e sottili come saltellava fuori dall'ascensore e mi superava con un risolino genuino.
Premetti il bottone del mio piano e mi accasciai al fianco della pulsantiera; era stata una lunga giornata ed il mio riflesso distorto nello specchio della parete opposta alla mia ne era la prova: i miei capelli erano scompigliati dal vento, il volto avorio caldo imperlato di sudore, il mascara attorno agli occhi color castagna aveva formato delle piccole lacrime nere sulla punta delle ciglia e le labbra si erano gonfiate dal caldo. Non appena le porte dell'ascensore si aprirono di nuovo, mi trascinai fino al mio bilocale, per poi abbandonare le chiavi sulla prima superficie a portata di mano.
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𝑺𝑶𝑳𝑶 𝑫𝑼𝑬 𝑺𝑨𝑻𝑬𝑳𝑳𝑰𝑻𝑰
Romantizm"Eravamo due nane bianche morte, spoglie di tutto, della speranza, dell'amore, della felicità, per restare un nucleo nudo della stessa sostanza con la quale nasciamo: le lacrime. Ma per qualche strana reazione chimica, quando collidevamo non esplode...