28

353 13 6
                                    

Secondo Albert Camus, "Non essere amati è solo una sfortuna; la vera disgrazia è non saper amare." Disgrazia ancora più grande, a mio parere, è temere l'amore; l'amore che porgi, l'amore che ricevi, che differenza fa? Quando si accetta l'idea di legare qualcuno a sé, che sia perché lo si ama, o perché ne siamo amati, si deve essere pronti ad accettare anche che si soffrirà inesorabilmente. Perché l'amore cambia, cambia forma e cambia le persone che lo provano. L'amore, come tante altre dipendenze, ti trascina lentamente sull'orlo del baratro e poi, quando finisce e tu cadi in crisi d'astinenza, è pronto ad assestarti un calcio nella schiena. Certo è che non si può scegliere chi amare, tantomeno se amare, ma ci si può opporre. Nonostante amiamo, possiamo ripudiare l'amore. C'è chi sostiene che chi ha paura di amare non vive davvero. A me, onestamente, non è mai interessato; l'amore non fa altro che sopprimere il nostro senso di sopravvivenza intrufolandosi nella nostra vita come un lupo vestito da agnello, così da alimentare quella bolla di illusioni idilliache che abbiamo di esso, prima di farla scoppiare e rovinarci l'esistenza. Per questo non si dovrebbe mai dipendere dall'amore, soprattutto da quello degli altri. Perché l'amore verso noi stessi è limitato dalla modestia, perché non sfoci nell'odiata presunzione: non si può soffrire dell'amore verso noi stessi, a meno di non peccare di superbia. L'amore degli altri, invece, ha un effetto rigenerante su di noi; non solo ci fa stare bene grazie ad i bei gesti e alle belle parole che ci vengono rivolti, ma ha anche il potere di accrescere l'amor proprio, poiché quando si è amati, si vedono i lati migliori di noi, quelli che mostriamo agli altri come riconoscimento per il loro affetto. E quando finisce, quali virtù ci restano? Veniamo prosciugati di tutta l'autostima, perché forse i nostri pregi non sono più abbastanza per meritare amore. Ci viene sottratto il calore umano. Restiamo soli, senza nemmeno noi stessi. Perché abbiamo puntato tutto su questa giocata, lasciandoci imbrogliare da un buon bluff, e poi si sono scoperte le carte e la nostra mano non era buona quanto quella dei nostri avversari. Perdiamo tutte le nostre fiches. Se non fosse che non si contano in denaro...

Io lo sapevo bene: avevo già perso tutto in quella terribile mano di carte con Nicholas. E adesso, con Daniel, avevo deciso di alzarmi dal tavolo, di ribellarmi a quel sentimento - qualunque esso fosse - che mi legava a lui. Stavo scappando da lui, è vero, ed una parte di me lo stava rimpiangendo, ma la mia testa stava tenendo le briglie del mio cuore impazzito perché non mi affezionassi a lui più di quanto già non lo fossi. Avevo così tanta paura di soffrire che avevo preferito il cosiddetto "male minore". Anche se di "minore" non c'era niente. Dirgli addio mi aveva fatto male, punto e basta. Non esiste una scala di valori per misurare il dolore, né per quantità, né per importanza.

Era stato comunque un male necessario. Perché non mi ero mai ritrovata ad aspettare un uomo fuori da casa sua solo per sapere se stesse bene, prima di allora. Così come non mi ero mai gettata tra le sue braccia seppur consapevole che lo avrei rivisto per i mesi a seguire - le mie avventure di una notte dovevano restare tali, da principio. Non mi ero mai lasciata coinvolgere in appuntamenti stravaganti al chiaro di luna con nessuno degli uomini occasionali con cui ero stata, non avevo mai raccontato loro della nursery, o del mio vecchio lavoro. Non li avevo mai baciati, né avevo permesso loro di conoscere il mio domicilio, figuriamoci entrare nel mio appartamento. Non avevo mai fatto conoscere loro i miei genitori. Alcune di quelle esperienze non le avevo vissute nemmeno con Nicholas, a dirla tutta. Immaginavo che, per quanto tentassi ardentemente di negarlo, io a Daniel ci tenessi. E nemmeno poco. In fondo, mi ero affezionata a lui, o non si sarebbe spiegato il motivo per cui avessi lasciato che mi condizionasse tanto. E non era stato solo un fattore mentale, come avevo tentato di convincermi, era stato anche e soprattutto un coinvolgimento emotivo. Perché non mi ero mai sentita più viva di quando eravamo corsi via ridendo dal proprietario di una barca ormeggiata nella baia, mai più genuina di quando ero saltata in un carrello di Safeway con Daniel che mi spingeva per le corsie, mai più tranquilla di quando avevo dormito al suo fianco nel mio letto e mai più leggera di quando lo avevo avuto dentro di me ed un affresco dell'isola di Anacapa spuntava da sopra il suo capo, dipinto sul soffitto. Mi ero infervorata e impermalosita, avevo pianto e lo avevo compatito. Daniel mi aveva sempre fatto provare qualcosa, in sua compagnia. Ed io lo avevo lasciato andare prima che quel "qualcosa" potesse spezzarmi il cuore. Perché più ripensavo al suo sorriso da bambino nelle corsie di un supermercato, ai suoi piccoli gesti premurosi - come baciarmi la tempia sul porticato del nostro alloggio per il weekend alle Channel Islands - e all'allusione che mi ero lasciata sfuggire prima di gettarmi da una scogliera con lui, più mi rendevo conto che non fossi pronta perché quelle semplici sensazioni che avevo sentito in sua presenza diventassero sentimenti che non riuscivo nemmeno a formulare nella mia mente confusa.

𝑺𝑶𝑳𝑶 𝑫𝑼𝑬 𝑺𝑨𝑻𝑬𝑳𝑳𝑰𝑻𝑰Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora