𝑷 𝑹 𝑶 𝑳 𝑶 𝑮 𝑶

877 25 5
                                    

MOUNT EVEREST, Labrinth

Portai lo sguardo dagli scalini la cui ruggine era illuminata soltanto da dei faretti sfarfallanti al palco, sul quale Miley stava concludendo la propria performance, proprio nel momento in cui un riflettore viola mi attraversò il viso, per poi percorrere la platea in un movimento circolare. Potevo vederlo riflettersi sui tavoli lucidi e sui bicchieri che vi giacevano, più o meno pieni di superalcolici. Sentii il nervosismo crescermi nel petto, mentre degli uomini si accalcavano con il busto oltre il palcoscenico pur di raggiungere il corpo ormai interamente denudato della mia collega e gettarle fiumi di soldi addosso; non mi piaceva affatto quando erano così vicini, io preferivo starmene entro una linea invisibile che mi ero imposta e oltre la quale sapevo che nessuno avrebbe potuto toccarmi. Sentivo i brividi attraversarmi la schiena e le braccia scoperte, nonostante dentro il Roaring 20's facesse più caldo che all'inferno, mentre Miley spalancava le gambe verso il pubblico e muoveva i fianchi, il capo reclinato indietro. Sapevo che non sarei mai riuscita, nemmeno in anni di carriera, ad avere quella sua stessa confidenza, quella sua stessa spavalderia. Amy mi diceva spesso che il segreto stava nella mia mentalità e che quando sarei riuscita a disinserire il freno a mano nel mio cervello sarebbe stato più facile, ma io non ero sicura se ci sarei mai riuscita, tantomeno quando. Amavo il mio lavoro, amavo sentirmi leggera mentre fluttuavo sulle note delle canzoni e la lieve brezza che si abbatteva sul mio corpo sudato quando mi avvolgevo attorno al palo da pole dance; amavo persino il puzzo del testosterone misto all'alcol ed al cartamoneta, i costumi sottili che mi svolazzavano adagio sul corpo. Al contrario, però, non amavo affatto le urla nel proscenio, né gli sguardi lussuriosi o le mani tese verso di me, come fossi un trofeo che chiunque pensava di poter raggiungere con il minimo sforzo; detestavo il giudizio degli altri, che mi vedevano come una sgualdrinella, il fatto che nessuno mi avrebbe mai presa sul serio per colpa del mio lavoro, nonostante io non avessi mai lasciato nessuno infiltrarsi tra le mie gambe per soldi e cercassi sempre e comunque di mantenere la mia dignità. Detestavo dovermi nascondere nell'ombra perché la luce mi avrebbe sempre derisa e rigettata.

Mentre tenevo tra le mani la vestaglia per Miley e la borraccia che aveva riempito di Dio solo sapeva cosa, le mani di Amy mi sistemavano le maniche a palloncino del vestito bianco velato che indossavo sopra il corsetto steccato e mi cospargevano le gambe di un sottile strato di gesso. Le sue dita erano fredde come marmo, ma sempre gentili su di me, e mi percorrevano l'interno delle cosce con movimenti rapidi e precisi, così che mi sarebbe risultato facile scorrere lungo il palo infuocato dalle luci dei riflettori. Infine, mi definì le due ciocche di boccoli biondi attorno al volto, dette maggiore volume alla mia coda di cavallo e controllò un'ultima volta il mio trucco, come fossi una bambola di porcellana, tra le sue mani.

«Forza, scimmietta, è il tuo turno» mormorò al mio orecchio, prima di liberarmi le mani.

Inspirai profondamente dal naso. Espirai dalla bocca. L'aria bollente ed umida che mi entrava nei polmoni mi bruciava le narici e mi si attaccava alla pelle, serrando ogni mio poro, ed i brividi che mi scuotevano le gambe mi rendevano praticamente impossibile restare stabile sui miei tacchi vertiginosi e dal plateau alto. Mi sentivo esattamente come una statua, immobile e chiusa, mentre Miley sfrecciava al mio fianco nella penombra e squittiva su quanto caloroso fosse il pubblico stanotte. Il locale piombò nel buio ed io capii che fosse arrivato il mio turno di salire sul palco. Detti le spalle alla platea, il palo, sul quale posai entrambe le mani poco sopra l'altezza del capo, che divideva il mio corpo in due perfette metà simmetriche. I proiettori di fronte a me irradiarono un fascio di luce rossa che rese visibile soltanto la mia silhouette in trasparenza, mentre il primo accordo di pianoforte, accompagnato dal tom-tom della batteria, davano inizio allo show. Ondeggiai i fianchi come la voce di Labrinth penetrava l'aria e faceva vibrare le pareti del locale; le mie mani scivolarono ai lati opposti lungo il palo per darmi un appiglio quando avrei sollevato le ginocchia, per poi divaricare le gambe nel toccare di nuovo la terra con i piedi. Rovesciai il capo, seguito dal busto, verso sinistra, le mie dita che raggiungevano la caviglia e risalivano lentamente lungo la gamba nuda, sollevando il vestito per scoprire la coscia. Chiusi fermamente gli occhi, prima di voltarmi verso il pubblico, portando una gamba dietro l'altra. Va bene, Abby, lo hai fatto un milione di volte. Piegai il ginocchio destro e picchiai il fianco contro il palo. Non è niente che tu non abbia già visto. Mi voltai verso sinistra con una mezza piroetta e sollevai la coscia sinistra, le dita ben ancorate sul palo. Portai la punta del piede in alto e reclinai la schiena, il capo abbandonato indietro. Apri gli occhi. Seguii gli ordini della mia coscienza e le mie palpebre si schiusero lentamente, mentre i riflettori mi scorrevano addosso come lava. Sentivo l'impellente bisogno di salire, di sentirmi leggera e al di sopra del palco, del pubblico, del mondo intero, libera dalle mie catene. Invece, con un oscillamento verso sinistra, fronteggiai completamente il proscenio per la prima volta, le gambe aperte che si sorreggevano sui tacchi; mi lasciai scorrere verso il basso come le mie ginocchia si piegavano verso l'interno, per poi roteare i fianchi facendo perno sul plateau. Infine serrai le cosce e roteai sul fianco destro del palo, in ginocchio, e cavalcai il palco sollevando ed abbassando i fianchi, girando la gamba destra a terra. Quando mi risollevai, per poi flettermi lungo l'asta con le mani che scorrevano sopra le rotule, raggiunsi l'orlo del vestito e strattonai con forza, strappando le cuciture della gonna, che tenni stretta tra le dita mentre le portavo il più in alto possibile sullo stollo e vi ruotavo attorno. Tornando con le ginocchia a terra, protrassi il baricentro in avanti, così da creare un angolo retto con i fianchi, e li mossi avanti e indietro, prima di voltarmi stesa supina con le spalle verso il pubblico e far mulinare le gambe in aria, finché non si fossero brancate al palo. Quindi mi sollevai, scorsi le cosce e le mani lungo l'acciaio, verso l'alto; arpionai un gomito all'asta, portai i brandelli della gonna ad un piede per stringerli tra le dita e mi capovolsi, le gambe in una spaccata verticale mentre i fianchi e le braccia mi davano la spinta per girare velocemente, la stoffa bianca che svolazzava come una bandiera arrendevole. Infine roteai i piedi perché tornassero incrociati sul palo, la musica che mi rimbombava nelle orecchie.

𝑺𝑶𝑳𝑶 𝑫𝑼𝑬 𝑺𝑨𝑻𝑬𝑳𝑳𝑰𝑻𝑰Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora