𝕺𝖕𝖆𝖑 ꧁៙Quindicesimo capitolo៙꧂

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Di quel momento ricordavo dell'acqua o almeno il suo suono

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Di quel momento ricordavo dell'acqua o almeno il suo suono. Erano ticchettii continui e rilassanti che cadevano in laghi che non potevo vedere.
E poi il bianco, un bianco immenso che aveva preso il posto del buio che mi aveva assalito poco prima.

Col senno di poi mi resi conto che il tempo, là dove mi trovavo, non esisteva. Il dolore non esisteva. Il passato e il presente non erano definiti dando, così, poca importanza anche al futuro.

Però, in quel bianco immenso, vi era un muro. Lo sentivo contro la schiena, contro le gambe. Vi ero poggiata e rilassata.
Sarei rimasta lì per sempre.

Solo una persona non era d'accordo con la mia decisione: Esmeralda.

Non mi chiesi perché fosse la con me, da dove fosse arrivata e quali fiori stesse cogliendo in quel mondo bianco sconfinato. Non aveva importanza.

«Non riuscirai più a muoverti se continuerai a restare lì in piedi così» mi disse serena, senza alcun cenno di rimprovero.

Sorrisi nel guardarla. La mamma di Elia era sempre stata una seconda madre per me.
Mi aveva trattata con amore, mi aveva sempre coccolata e protetta da mia madre. A lei dovevo tantissimo.

«Non riesco a fare altro. Il mio corpo è rilassato. Sto bene così...» risposi tranquilla.

Esmeralda venne verso di me con il suo mazzolino di fiori colorati. Il loro profumo era intenso e fisico. Li avrei toccati se solo avessi potuto.

«Dov'è finita la mia bambina che lotta?».

«È qui...» le risposi, proprio come quando ero piccola.
«E allora prendi questi fiori e lotta per tornare a casa. Non è tempo per questo luogo».

I colori tornarono non appena riaprii gli occhi. E, tra le mani, stringevo li stessi fiori che Esmeralda mi aveva dato.
Scoprii dopo che li avevo afferrati mentre ero ancora in coma, poco prima di svegliarmi. Per i medici era stato solo un riflesso, ma per me ed Elia non era così.

Esmeralda mi aveva salvata. Mi aveva salvata dall'incidente impedendo alla macchina di schiacciarmi oltre la portiera e mi aveva salvata riportandomi fuori dal coma.

Avevo ancora la maschera dell'ossigeno, la flebo e la gola secca.
Però i miei occhi erano in quelli scuri di Elia e questo mi faceva sentire bene. Le mie dita spuntavano appena dalla sua stretta, accanto alle sue labbra calde.

«Ero certo che saresti tornata» e aveva le lacrime agli occhi. Occhi gonfi e rossi. Chissà quanto aveva pianto al mio capezzale in quei due giorni che avevo passato dormendo.
Però eravamo nuovamente là insieme.

Riuscii a pronunciare un flebile sì.

Passai una settimana in ospedale. La mia ripresa fu veloce anche se mi sarei portata le stampelle ancora per un po'. Quella settimana non fu davvero dura. La passai dormendo quasi per intero.
Ciò che mi spaventava di più erano i lividi che avevo sul corpo e sul viso.

Mi vedevo inguardabile. Eppure sentire l'amore che i miei amici mi avevano riversato addosso, fu sufficiente per accettare ogni cosa.
Quando fui dimessa ci fu una gran festa. Erano tutti lì per me, Pier, Nyx, Siria, compreso mio padre. Non lo avevo così vicino da sette anni. Era accanto ad Olimpia, quasi in lacrime.

Fui io, claudicante, a raggiungerlo. Quell'orgoglio che avevo provato per tanti anni nei suoi confronti si era sciolto non appena lo vidi presente in quella stanza.

Non mi disse una parola, mi abbracciò forte e mi baciò la fronte. E tutto questo fu sufficiente. Per entrambi.
Mia madre invece non era venuta. Neanche sapeva che mio padre era là. Mia madre mi detestava e non aveva perso occasione per dimostrarlo.
Aveva però chiesto di me a mia sorella. Mi ero ripresa dal coma e tutto ciò che era riuscita a dire fu un semplice "Ah, va bene".

Mi sarei giocata tutto nel scommettere che fosse convinta che l'incidente lo avessi causato io. Che ciò che avevo passato infondo me lo ero cercato. Olimpia però non mi disse nulla in proposito. Forse voleva risparmiarmi l'ennesima delusione.

Per tutta la durata della convalescenza si erano impegnati a proteggermi. Nessuno aveva parlato dell'incidente. Nessuno aveva fatto cenno alle indagini. Perché c'erano delle indagini in corso.

La macchina di Elia era stata manomessa. Qualcuno aveva provato ad ucciderlo spagliando bersaglio.

Elia sembrava non volerne parlare. Anche quel giorno, seduti ai giardini della Guastalla.

«Non devi stare in piedi per forza se non te la senti»
Elia mi invitò a sedermi su una panchina. Ero stanca, il mio fisico si stava ancora riprendendo dall'incidente, ma non volevo cedere. Dovevo tornare forte come prima.

«Non preoccuparti. Sto bene. Piuttosto, dimmi se è stato scoperto qualcosa sulla macchina».

«É stata manomessa. Qualcuno ha provocato l'incidente. Volevano forse...» non riusciva a terminare la frase.

Qualcuno aveva cercato di ucciderlo. Ma non avevano altro in mano. Il lavoro svolto sulla sua macchina era perfetto.

«Per favore, non voglio che tu ora possa entrare in paranoia. Già mio padre si è allertato, mi ha promesso di trovare il responsabile. Ha molte conoscenze.»

Di questo ne ero certa. Suo padre era in mezzo a molti giri. E lo era anche Siria. Sperai che non appena il responsabile fosse stato trovato mi rendesse partecipe del suo pestaggio.

«Come puoi non chiedermi di essere preoccupata?»
«Ho parlato con Siria, ha detto che possiamo appoggiarci insieme nella tua suite. Ogni nostro spostamento, mio soprattutto, verrà controllato. Questo finché non verrà scoperto il responsabile.»

Il Diamond mi mancava. Era stata la mia casa per tanti anni. Ma, adesso, si sarebbe trasformata in una prigione.
E tutto questo per qualcuno che voleva uccidere Elia. Perché poi?

«Non riesco davvero a capire chi possa volermi fare questo » parlò Elia, come se mi avesse letto nel pensiero. «E ti assicuro che non vedo l'ora di chiederglielo».

Avevo una tale rabbia in corpo...

Elia però mi afferrò le mani e se le portò alle labbra, baciandomele delicatamente.
«Sei la prima persona con cui vedo un futuro concretamente. La prima donna che vedo come mio futuro e non come qualcuna con cui averlo. Amavo Aleith, volevo un figlio con lei. Ma era solo questo, un mezzo con cui coronare la mia idea di famiglia. Con te invece è diverso...» mi strinse di più le dita, accarezzandomi i palmi con i pollici.
«Per me tu sei già la mia famiglia. Sei già il mio futuro.»

Elia mi tolse il fiato con quel suo discorso. E io non potei fare altro che ammirarlo, con la bocca dischiusa e le guance arrossate come una scolaretta alla prima cotta. 
«E ti amo...» concluse abbracciandomi.

L'uomo che amavo era la persona migliore che avessi mai conosciuto. Come poteva qualcuno odiarlo a tal punto da volerlo morto? Elia non aveva mai fatto del male a nessuno. Lo conoscevo come le mie tasche.

E se non fosse stato un torto subito a spingere quel criminale verso quel gesto? Se fosse stata la sola esistenza di Elia il tassello da eliminare?

Fu in quel momento che, forse, capii chi poteva aver architettato tutto.

Fu in quel momento che, forse, capii chi poteva aver architettato tutto

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