Epilogo

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QUATTRO MESI DOPO

 

 

 

L’appartamento che mio padre aveva comprato nel West End era minimalista e arioso. Il bianco dominava su ogni ambiente del piccolo alloggio, ferendoci gli occhi per i primi tre mesi. Ma dopo un po’ quelle pareti lisce e spoglie avevano smesso di abbagliarci, anche perché Jamie –tirando fuori l’artista che giaceva in lei- aveva ricoperto quei muri con quadri di ogni tipo. Nel soggiorno aveva appeso un trittico raffigurante lo sbocciare di una rosa, la quale era circondata da grandi petali che danzavano nel vento. Papà approvava lo spirito di iniziativa di Jamie anche perché, a detta di lui, quella casa era troppo fredda e asettica e c’era bisogno di un tocco di colore che ci donasse quell’atmosfera rilassante e calorosa che meritavamo. Così, pian piano che i giorni trascorrevano, sotto i nostri occhi c’era sempre qualche novità da trovare in qualche angolo: un vaso di fiori freschi dai toni vivaci, un libro in più nella modesta libreria a scala o, ancora, un cuscino colorato nelle stanze al piano superiore.  Jamie era una sorella fantastica. Non smetterò mai di pensare che quelle attenzioni alla casa fossero un modo timido per essere riconoscente al suo adorato Mr Collins per averla accolta nella nostra –quasi ritrovata- famiglia.

  I primi mesi dopo l’incendio che ha raso al suolo il collegio del Nord di Londra furono i più difficili. Ogni sera l’orrore di quella fatidica notte tornava ad affacciarsi nei sogni miei e di Jamie, costringendoci a svegliarci madide di sudore e con una tremarella preoccupante che ci faceva sentire precarie come l’ultima delle foglie appese ad un ramo. Allora Jamie veniva ad intrufolarsi nel mio letto, stringendomi le mani e cercando di recuperare il sonno accostando le nostri fronti, come a dire ‘io sono qui, gli incubi non torneranno più’. Il problema era che, per quanto riguarda la sottoscritta, gli incubi esistevano anche una volta riaperti gli occhi. Già. Mi capitava ancora di vederla, Jennifer Delacour. Ritta nel suo metro e ottanta, con il petto tronfio e l’espressione crudele, mi fissava nei posti più improbabili. Lei era lì, mentre accucciata a terra cambiavo i fiori della lapide di mia madre, mi osservava in lontananza, con le braccia lungo i fianchi e la gonna lunga svolazzante nel vento di Aprile. Ogni tanto parlava, come quella volta quando rimasi casa a preparare la cena mentre papà e Jamie erano andati a fare una passeggiata. Stavo tranquillamente tagliuzzando della cipolla e dei pomodori quando avvertii la sua presenza gravosa alle spalle.

 Non è reale, è solo nella tua testa.

 Lei non esiste.

 Nonostante quel mantra non mi sorpresi quando, una volta giratomi con ancora il coltello da cucina saldo in mano, l’avevo trovata sul vano della porta a fissarmi con la solita espressione riprovevole. Mi disse:

 -“Lo sai che non è finita, vero?”

 Mi ero voltata strizzando gli occhi, controllando il respiro, e poi –sicura che la sua immagine fosse sfumata via- mi voltai per raggiungere il bagno adiacente e sciacquarmi il viso…ma con mio sommo orrore la Delacour era tre centimetri dalla mia faccia e non potetti non gridare e recuperare il coltello dal ripiano per cercare di scacciarla via. Jamie e papà tornarono dal loro solito giretto trovandomi mentre colpivo l’aria urlando cose disperate che non vi starò nemmeno a ripetere. Quella era stata una delle mie crisi peggiori, ricordo ancora le braccia di mio padre stringermi come se fossi tornata ad essere una bambina di cinque anni, così come ricordo lo sguardo apprensivo che Jamie gli aveva lanciato sopra la mia testa.

 Non avevamo trovato una spiegazione plausibile per quelle visioni: forse erano solo il frutto di quello che avevo vissuto, quindi la mia paura proiettata a grandezza naturale nel mio presente oppure –e questa ipotesi era quella che più mi spaventava- la Delacour stava cercando di torturarmi invadendo la mia mente. Mi spaventava perché, per farlo, significava che non solo era riuscita a salvarsi ma che non doveva essere nemmeno così lontana.

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