Sesto capitolo

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Accostai la porta alle mie spalle e il primo dettaglio che mi colpì fu l’odore di chiuso. Le tapparelle abbassate, la scrivania stranamente disordinata e un piccolo strato di polvere che si alzò non appena poggiai la mano sulla superficie, mi fecero intendere che qualcuno non entrava lì dentro da un po’ di tempo. 
Non avevo idea con quale coraggio fossi entrata, come se fosse la cosa più normale del mondo, rischiando di poter essere scoperta dal fulcro di tutte le mie angosce ritrovandomela faccia a faccia. 
Ispezionai la scrivania con un rapido sguardo, la mia vista alterata dall’adrenalina, e non notai niente di interessante. Protendendo la testa in avanti, però, m’imbattei in un palio di occhi di un giovane uomo, quello che cingeva la vita di una sorridente preside incorniciato da un riquadro di ruggine. Mi avvicinai socchiudendo gli occhi combattendo contro il buio della stanza e mi concentrai sull’uomo del dipinto. Sicuramente era il padre di William, l’ossessione di Jennifer. Quando entrai per la prima volta in quell’ufficio non avevo notato che i suoi occhi erano bicolore, proprio come quelli del figlio. L’uomo era sorprendentemente bello, di una bellezza da lasciare esterrefatti anche se il suo sguardo sembrava malvagio. Non riuscivo a staccare gli occhi dal suo volto studiandone i particolari e cercando di scovare qualche altra rassomiglianza con Will; i capelli erano neri come la pece, le sue labbra si tendevano in un sorriso appena accennato, la forma del viso squadrata, la postura rivolta verso la donna, cingendole i fianchi. Jennifer mostrava una dolcezza evidentemente persa con gli anni, i capelli lunghi appoggiati sulla spalla sinistra. I suoi occhi, però, sembravano esser stati dipinti con un colore più scuro rispetto al suo naturale. I vestiti dei due erano di un’epoca indecifrabile. Non so quanto rimasi a scrutare il quadro in tutte le sue sfaccettature ma sobbalzai non appena un forte sbuffo di vento fece tremare le tapparelle. Quindi pensai fosse un segnale e decisi di uscire dalla stanza prima che la situazione potesse peggiorare; indietreggiai offrendomi un’ultimissima occhiata ai due poi con il fianco urtai un cassetto aperto della scrivania. 
-“Ahi!”, squittii istintivamente, come istintivamente mi morsi la lingua. Mi voltai e quasi non potei crederci. In quel cassetto spalancato c’era un vecchio libro blu. Era gonfio, dai lati uscivano i contorni di alcune fotografie, cartoline forse, e fogli. Lo presi in mano e lo riconobbi immediatamente: era proprio questo il libro che avevo sognato. Era proprio questo il libro che custodiva i segreti della Delacour secondo la narrazione della mia amica. Vissi un attimo di esitazione nel decidere se riporlo o sfogliarlo velocemente. Ma ancor prima di rendermene conto le mie mani ghiacciate dal timore di essere scoperta e mosse dalla curiosità morbosa slacciarono lo spago che lo teneva chiuso. Il diario – così mi veniva da chiamarlo- si spalancò mostrandomi delle pagine fitte di parole con inchiostro nero. Mi caddero dei fogli sui piedi ma me ne sarei occupata successivamente. 
Presi a sfogliarlo come se quel gesto invadente non appartenesse a me, e a bocca aperta decisi di leggere una pagina a caso, ma fui investita dalla delusione: ogni foglio era scritto in francese. Sbuffai capendo solo le ultime parole alla fine della pagina Demetrio Je t’aime. Mi chinai a raccogliere i fogli che erano caduti e mentre stavo per drizzarmi urtai il cassetto aperto con la nuca -proprio come un ebete- perché ero palesemente in agitazione e le mie gambe cominciavano a tremare. Il diario mi sfuggì dalla presa e si aprì sulle ultime pagine dove riconobbi la lingua inglese. Mi precipitai in ginocchio per leggere, troppo ansiosa di andarmene per recepire ogni singola parola. Così lo chiusi di colpo cercando di sistemarlo il meglio possibile; lo riposi nel cassetto con accuratezza e corsi via. Okay, è stato un gesto stupido riporre il diario proprio nel momento in cui avevo trovato la parte scritta in lingua ma feci bene a lasciar stare perché, proprio mentre scendevo le scale con aria neutra, la incontrai. Mi rivolse un piccolo cenno di saluto e nient’altro, mi oltrepassò a passi strascicati e pregai con tutta me stessa di non aver tralasciato nessun dettaglio che le facesse scoprire di essermi introdotta furtivamente nel suo ufficio. Quando entrai nella stanza ero così sollevata che avrei anche potuto piangere, incredula di essermela cavata. Il tempo di riprendermi che scorsi di fronte al mio letto Jamie e Nicole a braccia conserte, sembravano attendermi da un po’ e la loro espressione tradiva un ché di occulto. 
-“Che fate qui in piedi?”, domandai perché loro avevano le labbra sigillate.
-“Quando noi ci sposteremo prometti che non ti arrabbierai? Che manterrai la calma?”, sussurrò Jamie con aria speranzosa. Roteai gli occhi al cielo fiutando aria di tempesta.
-“Scansatevi”, ordinai, riluttante. 
Le due si lanciarono un’occhiata complice e poi si aprirono a mo’ di sipario lasciandomi intravedere quello che c’era sul mio letto. 
-“Non ci posso credere!”, strillai gettandomi sul materasso e prendendo in mano quello che era il mio capolavoro. 
-“Il lavoro di una giornata! Distrutto!”, continuai scandalizzata, cercando di spianarlo, di dargli una forma accettabile ma, il dipinto che avevo creato durante l’ora extra, oltre che accartocciato, era anche stato imbrattato da una mano non mia. Sentii punzecchiarmi gli occhi da lacrime di rabbia che ricacciai indietro, così mi morsi il labbro e in sussurro gutturale domandai:
-“Dov’è Camille?”
Jamie risucchiò l’aria prima di darmi una risposta.
-“Em, lascia stare per favore! Non ne vale la pena...”
-“Jamie, cara, dimmi dov’è quella serpe!”, ribattei voltandomi di scatto verso di lei. 
-“Sei fuori di te dalla rabbia, cerca di calmarti o farai il suo gioco.”, intese facendomi sedere sul letto.
-“E’ vero. Jamie ha perfettamente ragione. Cerca di calmarti e non cedere alle sue provocazioni.”, rimbeccò Nicole posandosi accanto a me.
-“Ragazze, vuole farmi perdere la pazienza”, dissi con una voce talmente adirata e tremante che stentai a riconoscerla, -“e vi assicuro che ci sta riuscendo. Cos’altro devo sopportare?”
-“Oh Emily, vedrai che se tu non le dai spago lei poi desisterà.” Le mani di Jamie cercarono il mio viso contrito ma mi scansai dal suo tocco perché nella stanza entrò Camille. Mi alzai e le andai incontro, lei se ne accorse e assunse un’aria provocatoria come se non aspettasse altro.
-“Allora?”, sputai, avvampando. 
Lei inclinò il capo giocherellando con una ciocca di capelli. Si inumidì le labbra sottili prima di aver il coraggio di rispondermi:
-“Allora… che cosa? Che vuoi?”
-“Camille non fare la finta tonta che tanto non ti riesce!”, inveii puntandole il dito contro. Lei scrollò la folta chioma bionda.
-“E’ quello che stai facendo anche tu. Fingi di ignorare il perché del mio comportamento, Collins.”, mi accusò, poi, con tono tracotante. 
Mi schiacciai una manata sulla fronte, nemmeno troppo piano.
-“Ti prego, ti prego, ti prego Camille! Non fare la bambina, smettila! Tra me e William non c’è niente. Basta con questa storia, sei ridicola.”
Mi guardò alzando un sopracciglio, smettendo di torturare la sua ciocca di capelli. Lanciò una breve occhiata alle mie spalle e poi mi agguantò per il colletto della camicia trasportandomi fuori dalla stanza. Mi sottrassi bruscamente dalla sua presa, picchiandole contro il braccio.
-“Sei impazzita adesso?” La mia voce era isterica, -“perché devo giustificarmi con te se lui è gentile con me? Quale soddisfazione perversa trovi nel farmi del male?”
Non mi rispose, ma il suo viso si era indurito. 
-“Smettila”, chiarii, cercando di farle intendere che la mia pazienza era giunta all’apice della sopportazione. Ma forse era proprio il punto dove desiderava condurmi. 
-“La smetterò quando ne avrò voglia, Collins”, stabilì con un sorriso finto. Ero lì per lì per tirarle i capelli. 
-“Stammi lontana”, dissi poi con tono fermo e prima di aggiungere dell’altro o prima che potesse insultarmi, la campanella suonò ricordandoci che era ora di cenare. Mi squadrò dall’alto in basso e con una smorfia mi salutò, unendosi alle due amiche. Jamie e Nicole mi furono al fianco nel scendere le scale.
-“Brava ti sei saputa controllare”, commentò Jamie, torturandosi le mani. 
-“Qualche volta Camille porta all’esasperazione, ne siamo più che coscienti visto che spesso ci siamo ritrovate a metterle le mani addosso”, raccontò Nicole scuotendo il capo, -“persino Jamie le ha dato uno schiaffo.
Capisci? Jamie! Che ha un temperamento tranquillo e non farebbe del male ad una mosca.”
-“In genere”, aggiunse l’altra sospirando.
Mentre stavamo per raggiungere la sala, dalla porta finestra entrarono Simus e William. Quest’ultimo s’accese non appena incontrò il mio sguardo. Ebbi paura che qualcuno vedesse quell’intesa tra noi così, con rammarico, fui costretta ad abbassare il capo. 
Ci accomodammo come di consuetudine e mangiammo nel solito religioso silenzio. Avrei voluto squarcialo quel silenzio, per dire quanto sentissi la sua mancanza. Gli lanciai una fugace occhiata e come mi aspettavo incontrai i suoi occhi trepidanti. Mi scappò un sorriso, provando tenerezza nell’immaginare cosa potesse passargli per la testa. Infondo non mi ero mai avvicinata a lui quel giorno, il che –dopo il giorno precedente- era piuttosto strano. E non poteva sapere delle traversie che avevo affrontato e che mi avevano impedito di varcare quel maledetto confine che ci divideva. Ingoiando l’ultimo boccone di puré mi imposi che prima di andare a dormire lo avrei salutato anche solo per un secondo. Le mie mani bruciavano dal desiderio che avevano di incontrare nuovamente la sua candida pelle. Passando distrattamente la lingua sulle mie labbra sentii il sapore delle patate e del vuoto, della sua lontananza. Era consentito ardere in modo così violento per qualcuno? 
Con la coda dell’occhio lo vidi muoversi sulla sedia per attirare la mia attenzione, fece risuonare per tutta la sala un colpo di tosse, e in quel momento compresi che non potevo continuare ad ignorarlo. Simulò uno strano gesto con le dita che solo dopo averci rimuginato capii che voleva dire di aspettarlo fuori al suono della campanella. Aggrottai la fronte come per esprimere la mia perplessità; insomma era un passo avventato chiacchierare allegramente nel mezzo del corridoio con sua madre che gli aveva ordinato di non parlare con nessuna (specialmente con me), e con quell’insolente di Camille. Ma William scrollò le spalle facendomi un rassicurante occhialino. Se dovevo essere tranquilla perché sobbalzai al suono improvviso della campanella? Poi dovetti ricredermi: non avevo a che fare con uno sprovveduto; infatti, nel caos per risalire nelle stanze lui mi condusse in uno sgabuzzino pieno zeppo di scope, scatoloni e secchi. Le sue mani furono subito su di me e i suoi baci annientarono la mia lucidità. Staccandosi mi fissò con rimprovero. 
-“Si può sapere dove sei stata oggi?” 
-“Ero venuta a cercarti ma poi ho visto tua madre. Non sarebbe stato molto furbo intromettermi tra le tue faccende”, ridacchiai passandogli una mano tra i capelli già scompigliati. Guardandolo negli occhi mi resi conto di quando fosse piacevole provare freddo e caldo nello stesso momento. 
-“Non si fa così.” 
-“Cercherò di farmi perdonare.” Gli stampai un bacio. Lui si morse le labbra e sorrise. 
-“Lo farai certamente sabato.” 
-“Ed io non vedo l’ora… come facciamo ad uscire insieme dal collegio?” 
William roteò gli occhi al cielo e si distaccò da me, adagiandosi alla parete. 
-“Emily, Emily, Emily. Quand’è che ti rilasserai?” 
-“William, William, William”, ripetei,-“mi rilasserò quando uscirò da questo posto.” 
-“Intendi questo sabato?” 
Scossi la testa, la mia mente già proiettata ad un futuro lontano. -“Intendo quando avrò raggiunto la maggiore età”, soffiai con amarezza. 
-“Nel frattempo godiamoci i nostri momenti”, suggerì ammiccante e tornò ad abbracciarmi. 
-“Questo sta per finire”, mugugnai contro il suo petto. Il suo mento sulla mia nuca, il paradiso tra le mie braccia. 
-“Ancora un minuto. Cerca di rilassarti, sei sempre così tesa. Quando usciremo andremo lontano da qui, a Cadmen Town. Va bene?” 
-“Va benissimo. Ora è meglio che ci separiamo perché ho le gambe che iniziano a tremare dall’agitazione”, dichiarai una volta slacciatami da lui, la paura che sovrastava il desiderio di metter radici in quell’angolo di pace. 
Raggiunsi la porta e la mia mano si ritrovò a stringere la maniglia gelida, la inclinai e socchiusi la porta quando ancora le sue mani mi afferrarono. 
-“Solo un secondo. Che poi non possiamo concederceli altri fino a domani”, sussurrò un attimo prima di sigillarmi le labbra contro le sue. Mentre la mia mano sinistra era occupata ad accarezzagli il viso l’altra, quella isterica, si muoveva nella sua massa di capelli oro. Lui mi stringeva e quasi mi spezzava. 
-“William”, ansimai poco dopo, perché iniziavo a sentire dolore, -“William.” 
Lui credendo che quelle fossero suppliche riprese a baciarmi e ben presto il dolore si trasformò in qualcos’altro, e fu proprio allora che decise di staccarsi una volta per tutte. 
-“Mi... mi hai fatto male. Stringi troppo”, ridacchiai timidamente. Lui scosse la testa, sorridendomi irriverente. 
-“Sei tu che sei straordinariamente fragile.” 
Sospirai. 
-“Buonanotte William.” -“Buonanotte Emily. Ci vediamo domani.” 
Aprii con estrema lentezza la porta e calcolai quante possibilità avessi di imbucarmi nella coda delle collegiali senza che notassero la mia presenza. Erano alte, le possibilità, perché tutte mi davano le spalle; dunque mi voltai verso William per fargli intendere che me ne stavo andando ma era riuscito ad evadere dalla finestra senza che me ne accorgersi. Chiusi la porta e in un batter baleno, grazie alla mia corsa forsennata, riuscii ad invischiarmi nella mandria. Arrivai nella stanza col fiatone, mi adagiai sul letto e in un attimo le luci si spensero. Era calata la notte e l’adrenalina generata da quell’attimo fuggente mi faceva ancora tremare le gambe; mi girai sul fianco a fissare la luna che, quella sera, era più grande che mai. Era piena e fiera nel cielo stellato quasi a celebrare il mio periodo di gloria. Strinsi il cuscino con vigore, sentendomi leggera come la stessa sostanza gassosa che avvolgeva la luna; era un po’ l’effetto che si veniva a creare nel mio stomaco da quando il mio cuore si era risvegliato dal suo letargo, oltraggiato da remore e dolori. Non avrei permesso a nessuno di intaccare la mia felicità: né all’arroganza di Camille, né alle ossessioni della Delacour, né, tanto meno, alle mie stesse paure. Ma le cose a cambiare, si sa, ci mettono poco. 
E incurante di quello che mi aspettava il giorno dopo, mi alzai dal letto. 

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