Quarto capitolo

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Salii le scale deserte tirate a lucido più veloce della luce, con ancora il suo sguardo che m’inseguiva. Solo quando fui di fronte alla porta della mia stanza mi chinai per riprendere fiato, sostenendomi contro la parete.

Un’ombra si mosse dietro di me, facendomi trasalire. Mi voltai e vidi Nicole.

-“Sei qui!”, esultò, allargando le braccia al cielo, per poi farle ricadere sui fianchi.

-“Jamie non ti ha detto dove ero andata?”

La sua espressione precedette qualsiasi tipo di risposta.

-“Sicuro! Ma la campanella è suonata da un bel po’ e tu ancora non ti eri fatta vedere in giro, quindi ho ritenuto opportuno venirti a cercare. Per tua fortuna, la preside è ancora fuori.”

-“Oh. Bene, allora. Qualcuno si è accorto della mia assenza?”, le domandai aprendo lentamente la porta. Lei scosse la folta chioma tirando in su il pollice, segno che l’avevo fatta franca.

Mi lasciai andare ad un sospiro di sollievo.

E poi la giornata fu un susseguirsi di studio, ripassi e pettegolezzi. Non raccontai molto a Jamie e Nicole, a parte che William se ne sarebbe andato e che quindi, qualsiasi supposizione circa il suo interessamento per me era vana poiché lui non mi lasciò ad intendere un bel niente. Non che me l’aspettassi. Probabilmente, il dover portare una ragazza a colazione fuori faceva parte di una scommessa sancita con il suo gruppo di amici in Francia. La missione. 

Scossi il capo decisa a non pensare più a quanto bene mi fossi sentita, alle sensazioni che mio malgrado avevo provato e che non si sarebbero potute più ripetere.

Al termine di quella Domenica che si rivelò più apatica di un giorno infrasettimanale mi accomodai meccanicamente sulla sedia del mio tavolo. Non so perché ma quella sera i miei mesti pensieri s’indirizzarono anche al tavolo delle ragazze dell’ultimo anno. C’erano una netta differenza tra quelle del primo –ancora spontanee, azzarderei dire sorridenti- e quelle dell’ultimo anno –impostante, più bianche del normale e maledettamente serie. Mi ricordarono un ammucchiamento di bamboline da cariòn, private di qualsiasi forma di emozione, solo se azionate avrebbero potuto trasmettere qualcosa. E nel collegio, a lungo andare, si poteva solo trasmettere la sottomissione. Mi domandai con un pizzico d’angoscia se col passare degli anni avrei perso le mie buone speranze diventando così triste e impostata, come se qualcuno mi avesse strappato dalla pelle l’adolescenza e le belle cose che continuavano ad esistere fuori di qui.

A differenza dei nostri miseri pasti, il lungo tavolo degli insegnanti era imbandito di vere leccornie, le quali non potrei elencarvi senza svenire nel ricordare quanto il mio stomaco patisse in quei momenti. La sua concezione del distaccarsi dal piacere effimero del cibo, in modo da poter controllare la nostra volontà senza divenire schiave era un concetto che non riuscivo per niente a far mio.

Tutta quell’accozzaglia non facevano che rallentare i miei pensieri; il lato positivo di questo era che ero giunta all’ultima sofferta polpetta e non essermene accorta. 

Così come non mi ero resa conto che Nicole stava imprecando velocemente e sottovoce.

-“Non posso crederci”, disse poi, sporgendosi oltre me per rivolgersi a Jamie. Mi voltai verso quest’ultima che mirava un tavolino distante dal nostro, verso quello dei professori. Seguii il suo sguardo ma tutto ciò che vidi furono altre teste girate verso quel punto.

-“Che sta succedendo?”, chiesi, nel momento in cui scorsi la testa riccia della Galdys attraversare la stanza.

-“Agnese Ginobili è nei guai”, mi spiegò Jamie.

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