Quattordicesimo Capitolo

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Ho l’impressione che quando il tempo decide di rallentare è perché, in qualche modo, qualcuno ti stia dicendo di agire. Di calcolare la tua prossima mossa, di evitare un pericolo, una conseguenza.

Di correre dietro alla signorina Williams e afferrarla per il lembo del cappotto e tirarla indietro, urlarle, a tre centimetri dalla faccia, che cosa aveva intenzione di fare pur avendolo compreso.

E bisogna essere bravi a capire quando è giusto agire, a captare quel rallentamento che potrebbe rivelarsi fondamentale.

Ma quella volta non feci in tempo nonostante il campanello d’allarme che era risuonato nell’aria. Nessuno ha potuto fare in tempo.

Lasciai che le grida mi saturassero le orecchie, poi, stringendo il pacco contro il petto indietreggiai di qualche passo – giusto per assicurarmi di aver equilibrio- ed infine corsi via da quella tragedia. Mi riversai in strada, nel panico, non sapendo in che luogo sarei capitata perché i miei piedi seguivano una bussola che non avevo deciso, che ignoravo.

Mi ritrovai ad aprire una porta dai bordi rossi di un bar in centro. C’erano poche persone all’interno e nessuna pareva aver fatto caso al mio trafelato ingresso.

Ero davvero spaventata. Non mi era mai capitato di respirare così pesantemente, di avere la vista a chiazze… o, almeno, non prima di uno svenimento. Questa volta, però, avevo la consapevolezza di non essere prossima a perdere i sensi; una cameriera mi si avvicinò di colpo mostrandomi sotto il naso un sacchetto di plastica che conteneva una serie di cioccolatini a forma di babbo natale.

-“Un presente per i nostri affezionati clienti!”, le sentii dire con una voce fin troppo trillante.

Non so per quanto rimasi a fissare quel sacchetto che ciondolava dalle sue mani, avrei voluto parlare eppure, tutto ciò che uscì dalla mia bocca, era lo sbattere dei denti.

La cameriera poggiò i dolci sul tavolo, proprio accanto al pacco e quando si allontanò mi parve di averla vista rigirarsi due, tre, forse quattro volte. Non ricordo.

Un istante dopo mi ritrovai a correre lungo le scalinate che portavano al mio dormitorio. Aprii la stanza, appoggiai il pacco sul letto, mi tolsi il cappotto, ripresi il pacco e, una voce che non riconobbi, mi fece sobbalzare costringendomi a mollare la presa da esso.

-“Emily!”

-“William!”, balbettai presa alla sprovvista. Calciai la scatola sotto il letto e pregai che Will non avesse sentito il rumore sospetto di quel movimento.

-“Sei appena rientrata. Ma dove sei stata?”

-“Volevo andare a fare un giro e lo so che non ho il permesso perché sono minorenne. Non c’è bisogno che me lo ricordi.” Mi sorpresi del mio tono calmo e deciso.

Quando lui mi venne accanto notai di quando spaventose fossero le sue occhiaie. Prima di reagire a quella visione, William mi abbracciò.

-“Buon compleanno.”

-“Grazie”, mormorai contro il suo caldo maglione azzurro.

Davvero una bella giornata, viste le premesse, non potetti non pensare quelle parole senza avvertire una morsa allo stomaco e un magone di pianto represso pulsarmi nella gola.

-“Vorrei poterti dire che va tutto bene”, bisbigliò come se stesse parlando contro la sua volontà, -“ma ho delle cose da dirti. E non sono piacevoli.”

Mi scostai, sorpresa e in apprensione, stavolta credendo sul serio di non potercela fare.

-“Lo avevo capito dalla tua brutta cera, Will…”, mi ritrovai a dire appoggiandomi al muro accanto alla finestra. Lui si sedette sul letto e si passò una mano tra i capelli ancora impregnati dal gel della sera precedente.

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