14. [Departure]

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La sveglia suonò all'improvviso. Questo significava che erano le 7,00.
«Alzati Beth! Farai tardi a scuola!» la voce di mia madre mi svegliò meglio di come la sveglia avesse mai fatto in tutti questi anni. Emisi un mugolio incomprensibile e mi alzai controvoglia, stropicciandomi gli occhi. Scesi le scale ed andai in cucine, dove mia madre mi stava aspettando, seduta a tavola che beveva un cappuccino. Me ne preparai uno anch'io e mi sedetti vicino a lei a berlo.
«Buongiorno. Dormito bene?» mia madre cercava di fare conversazione.
«Mh-mh» avevo la bocca impastata dal sonno e non riuscivo a staccare le labbra.
«Lo prendo per un si.» il sorriso di mia madre, palesemente falso, mi dimostrava che c'era qualcosa che non andava «Sai, sta notte mi ha chiamato la madre di Jack, Julie.»
Stavo per sputare addosso a lei tutto il cappuccino che avevo bevuto, ma mi limitai ad ingoiarlo e a fissarla sbalordita.
«Ha detto che Jack non sta per niente bene, e che domani dovranno trasferirlo in un altro ospedale dall'altra parte del paese per qualche mese.»
In quel momento mi stavo sentendo male. C'ero solo io, in un mondo sfocato e grigio, e la voce ovattata di mia madre che cercava di chiamarmi. Non riuscivo a sentirla. Tutti i miei sensi avevano smesso di funzionare come si deve, e non capivo più niente. Non riuscivo a muovermi. Il mio corpo non era più sotto il mio controllo. Gli occhi iniziarono a pizzicare e il mio respiro divenne affannoso. Il mio cuore iniziò a battere più velocemente, mentre vedevo la figura distorta di mia madre che mi guardava preoccupata. Fu l'ultima cosa che vidi, prima di svenire.

Mi svegliai in camera da letto, sotto le coperte. Cercai di alzarmi, e subito un fortissimo mal di testa mi colpì. Riuscii a superarlo, così mi diressi verso il bagno. Non prima di aver controllato l'orario. Le 8,30. Forse ce la facevo ad entrare a scuola alla seconda ora.
Mi lavai e mi vestii con una felpa bordeaux con la scritta bianca "Fuck off" e un paio di leggings neri. Indossai le mie Converse All Star bordeaux con le borchie ed una cuffia nera e mi truccai come al solito. Presi la giacca ed uscii di casa.
«Ferma!» la voce di mia madre mi fermò sulla soglia «Non puoi andare a scuola! Hai avuto un attacco di panico!»
«Si, mamma. Ma adesso sto meglio. Quindi, se non ti dispiace, vorrei uscire.» le risposi a tono. Forse sono stata un po' cattiva, e me ne pentii, ma dovevo parlare con Kiara. Poi sarei dovuta andare da Florence a chiarire la questione di mio padre.
«Aspetta. D-Devo farti la giustificazione.» la voce di mia madre era rotta, spezzata, come se stesse per piangere. In quel momento ero dispiaciuta, ma non lo diedi a vedere. Rientrai ed aspettai che mia madre firmasse il foglietto verde ed uscii, stavolta senza essere fermata da nessuno.

Entrai in classe e lasciai la giustificazione sulla cattedra, poi mi andai a sedere al mio posto. Mi accorsi che dove doveva essere seduto Jack c'era un ragazzo nuovo, muscoloso ma non troppo, lineamenti perfetti, capelli biondi ed occhi... Beh, semplicemente perfetti. Erano verdi prato, non come i miei, tendenti al grigio, ma proprio verde prato. Avevano qualche striatura azzurra. Erano di un colore raro, rarissimo. Mi persi un attimo in quegli occhi, poi mi ripresi e lanciai un'occhiata indicatrice alla professoressa, che come risposta mi disse: «Oh, giusto Beth. Lui è il nostro nuovo compagno. Si chiama Kevin Catalano.»
Catalano... Questo cognome mi è familiare...
Pensai. Mi sedetti e mi presentai al biondo accanto a me «Ciao Kevin, io sono Beth Told.»
Lui fece una faccia un po' preoccupata, poi sorrise.
Falso.
Sorrisi anche io, poi cercai di stare attenta alla lezione.

Arrivate le 14,00, uscimmo tutti da scuola e ognuno tornò a casa propria. Prima, però, volevo salutare Kevin. Durante le lezioni avevamo fatto amicizia e si è rivelato un ragazzo molto simpatico. Mi avvicinai a lui, e notai che stava parlando al telefono.
«Si papà! Ti dico che è lei! ... Si è Beth Told, la figlia di Karl! ... No ... No che non posso! ... Non la u...» poi si accorse che io gli stavo vicino, e si bloccò di colpo «Va bene papà ... Ci sentiamo dopo» chiuse la chiamata, e mi sorrise, falsamente.
«Con chi parlavi al telefono?» breve e concisa.
«Beh... Era mio padre, Anthony.» mi rispose.
La mia mente iniziò a lavorare freneticamente. Anthony Catalano. Il boss mafioso. E stava parlando di me con lui.
«Perché parlavate di me?» gli chiesi.
«Ma gli affari tuoi no, vero?» mi rispose bruscamente e se ne andò, infuriato. Io ci stavo capendo sempre meno di questa faccenda.
Andai da Kiara, che fortunatamente non se n'era ancora andata. Mandai un messaggio a mia madre, e le dissi che non sarei tornata a casa, perché ero fuori con la mia amica. Fece lo stesso anche lei e, insieme, ci avviammo verso la sua macchina. Partimmo verso la palestra di Lincoln Street, per trovare John Florence. Appena arrivate, entrammo, e ci accolse una signorina all'entrata, capelli neri a caschetto e occhi blu mare. In effetti, assomigliava a Katy Perry «Buongiorno. Vi serve qualcosa?»
«Noi stiamo cercando John Florence.» mi anticipò Kiara.
«A quest'ora dovrebbe essere nella piscina. Quando non c'è nessun allievo, va sempre lì.»
La signorina ci indicò la palestra e noi la ringraziammo, poi ci avviammo dove ci aveva detto. La piscina era enorme, con moltissime corsie. In una di queste un uomo sulla quarantina nuotava a stile libero. Appena si accorse di noi si fermò e uscì dall'acqua. Si avvolse in un accappatoio e ci disse: «Buongiorno. Avete bisogno di qualcosa?» era proprio come lo ricordavo: mingherlino, i capelli biondo cenere ricadevano sul viso coprendogli gli occhi, uno color nocciola e l'altro celeste, e gocciolavano a terra producendo un suono ritmato. L'unica differenza era un po' di barba, che non c'era nel mio sogno.
«Certo. Lei è Kiara Logher ed io sono Beth Told.» il suo viso si illuminò in un sorriso quando sentì il mio nome.
«Tu... Tu sei la figlia di Karl?» mi squadrò da capo a piedi e poi continuò «Sei cambiata moltissimo. Ti ricordo come una bambina piccola ed indifesa, adesso invece sei una donna. Dimmi, come sta Margaret?»
«Lei sta bene, ma io volevo chiederle una cosa riguardo mio padre.» il suo viso si rabbuiò, poi annuì, come a darmi il consenso di continuare «Lei sa chi lo ha ucciso?»
«Vedi, sono passati ben sette anni da quel fatto, e la mia memoria vacilla un po'...» io abbassai la testa rassegnata, però lui continuò «Nonostante questo, ricordo che tuo padre ed io lavoravamo per Anthony Catalano, il boss mafioso, entrambi per alcuni debiti che avevamo con lui in passato. Ci assegnava compiti del tipo: spacciare la droga, truffare qualcuno... Un giorno tuo padre mi disse che, avendo saldato il debito, non voleva più lavorare per lui. Ma Anthony non si lascia scappare facilmente un uomo, quindi appena scoprì che tuo padre non voleva più continuare, lo cercò e quando lo trovò...» lasciò la frase incompleta, lasciandomi capire tutto. Alcune lacrime solcarono il mio viso, ma le asciugai.
«Grazie John. Avevo bisogno di capire.» lo salutammo ed uscimmo dalla piscina, poi andammo all'entrata, dove era ancora seduta Katy Perry. La salutammo, ed uscimmo dalla palestra.
Entrammo in macchina e durante tutto il viaggio né io né Kiara spiccicammo parola. Solo quando dovevo scendere la salutai, e lei come risposta mi abbracciò. Sorrisi e ricambiai, un po' sorpresa del suo gesto. Dopo alcuni secondi ci staccammo e lei ripartì in auto. Salii a casa, ma la trovai vuota. Sul frigorifero c'era un biglietto, che recitava così:

Non mi lasciare solaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora