32. Fuoco

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Neil camminava a passo svelto per le strade della città, il battito accelerato, il fiato corto. Non aveva mai corso così a lungo in vita sua. Varcata quella porta rossa, aveva attraversato la trama intricata di piante, la stradina sterrata e la periferia senza mai voltarsi indietro.

Arun, un assassino.

Gli pareva di vivere un sogno. Un incubo.

Quando pensava che non potesse essere possibile, che Arun doveva essere il vecchietto tranquillo che lui credeva di conoscere, gli tornavano in mente le parole che Anandria gli aveva detto ormai mesi prima.

«Potrebbe essere un maniaco, un sadico. Tanti anni fa, due ragazzi scomparvero e lui era tra i sospettati.»

E allora, tutto quadrava. I ragazzi scomparsi. Le voci che giravano su di lui. E l'angoscia che Neil provava nella stanzetta triangolare – perché, ormai ne era sicuro, quella doveva essere stata la camera di Iris.

Arun, un assassino.

E lui, stupido, che si era fidato. Che si era trasferito in quella casa senza sapere niente, senza informarsi. Che aveva fatto diventare quell'uomo il suo punto di riferimento.

Arun, un padre.

Un padre a cui il dolore aveva strappato via ogni possibilità di distinguere il confine tra la pazzia e la lucidità. Un padre che si era fatto giustizia da solo.

In fondo, quanto poteva biasimarlo? Le faccende tra Insani non conoscevano una giustizia.

Sfinito, Neil si lasciò cadere su un muretto. Davanti a lui, la stazione di polizia proiettava dalle finestre le immagini degli uffici vuoti, illuminati invano. Ogni tanto si intravedeva la figura di un poliziotto gironzolare come un fantasma pigro che spiccava nel buio dell'esterno.

Quando ebbe ripreso fiato, Neil si rimise in piedi, oltrepassò la stazione e si infilò nel viale che portava al parco.

L'idea di denunciare Arun l'aveva sfiorato per una manciata di secondi, ma era uscita quasi all'istante dalla sua mente. Forse sarebbe stata la cosa più giusta da fare, ma la giustizia, davanti agli Insani, era cieca da un pezzo.

Adesso, però, Neil non sapeva come comportarsi. Non sapeva cosa pensare.

Chi era davvero Arun? Cos'altro sarebbe stato capace di fare?

Il parco era chiuso. Neil si gettò un'occhiata intorno, poi si arrampicò sulle inferriate e balzò giù, dall'altra parte. L'erba tagliata di fresco attutì il salto e il rumore dei suoi passi leggeri.

La solita panchina era là, vuota, lontana. La loro panchina: sua e di Anandria. Non la ricordava così malridotta. Fece per raggiungerla, poi si bloccò a metà strada. Davanti a lui, il legno scrostato gli pareva evanescente, come se fosse parte di un ricordo, di una visione, di un'altra vita. Voltò le spalle alla panchina e cambiò direzione, cercando di far scendere il nodo che gli era salito in gola.

In quel momento, non sentiva altro bisogno che camminare, lasciar vagare i pensieri, portare a spasso quell'inquietudine che gli aveva bloccato il respiro da quando Arun aveva cominciato a parlargli di sua figlia. Non aveva idea di cosa fare, né sapeva se sarebbe tornato in quella casa, ma non voleva pensarci.

Solo.
Voglio stare da solo.

La solitudine, in fondo, pareva essere un punto fisso della sua vita e della vita delle persone che gli erano state accanto. Anandria era stata sola, e si era lasciata divorare. Arun era rimasto in totale isolamento per trent'anni, e anche adesso che con la sua compagnia aveva spezzato quella triste abitudine, Neil cominciava a capire che in realtà quel vecchio la solitudine ce l'aveva dentro: una solitudine da cui era impossibile ritrarsi.

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