18. Febbre e ghiaccio...

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Edelyn Brooks | POV


Il mio sorriso era svanito nel deserto più arido del mondo. Quei piccoli dentini ancora di latte, non resistevano allo sforzo che dovevo condurre nel mio corpo, con la medesima forza che ponevo nel non prosciugare anche i condotti delle mie lacrime, perché volevo spendere quelle lacrime in un altro posto. Un luogo che più accogliente di com'era però quello, non poteva essere.

Le mie dita si sottoponevano al supplizio di danzare su quei tasti che parevano donarmi una forza sovrannaturale, tuttavia non mi modellavano il viso quel giorno, quando c'era quell'oggetto inanimato che ghignava sulla mia schiena.

Non quando accarezzava in maniera maligna il tessuto morbido che ricadeva sulla mia schiena. Quel maledetto colore era ancora avvolto su di me, mi infagottava alla pari di un maialino rinchiuso in una gabbia. Ma io ci provavo.

Davvero. Non ero capace a percepire la libertà che doveva sconvolgere il volto di una bambina di otto anni.

No, io ero: chinata in avanti, le labbra strette e doloranti, gli occhi che premevano e pregavano di non essere schiusi dalla voglia di correre via dall'Inferno.

Volevo essere su una di quelle sedie che giacevano nel salotto della casa, deliziarmi di qualche succulento piatto o inghiottire l'intera cucina; talvolta, ero seduta su uno sgabello ad imprimere le note amare della mia vita, con una persona che mi puntava contro quell'oggetto come se fosse un'arma. La mia pelle strideva sotto al materiale massiccio che assumeva quell'oggetto sistemato sulla mia schiena.

Io lo avvertivo con uno strato molle di agghindamento. Tanto che una smorfia comparve sul mio volto per un millesimo di secondo... «Ahi!» pispigliai nella mia mente, nella speranza di non averlo urlato, altrimenti ne avrei ricevuto un altro... Un altro colpo che si infliggeva sulla mia pelle puerile e nella mia mente, prima di scomparire per rinchiudersi dove nessuno lo avrebbe trovato...

«Sta bene» comincio sorpassando con le mie iridi le righe sottili segnate su un foglio di carta «Lui mangia» continuo riproducendo una moina caratterizzata dall'intorpidimento nauseabondo che si aggruma nel mio stomaco.

Gli occhi bluastri sono fissati sulla mia figura, taciti mi segue nel discorso confuso che sto compiendo in queste quattro mura.

«Ma, Ed» tenta di arginare le parole aspre che mi sorpassano le labbra in un soffio «A che razza di gioco stiamo giocando? Ai sinonimi e contrari?» ribadisco infuriata con chi pronuncia queste parole senza alcun margine di ritegno. Tiro le labbra in un sorriso amaro, interrompendo i tentativi a vuoto, dell'interlocutore.

«Ma, aspetta... ora arriva il bello» asserisco seria, preparandolo agli schiaffi amari di quell'assurda situazione in cui sono capitata conversando con i miei genitori a cena, ieri sera, dove approfittavo del loro momento di serenità per inghiottirli nel mio circolo vizioso, costituito principalmente di domande per vedere Jeremy.

«Edelyn non è stata colpa tua» li imito dislocando il mio polso da una parte all'altra del mio territorio, come se stesse volteggiando in aria. Transito la mia lingua sulle labbra, per rilasciare una quantità indefinita di liquido che le ammorbidisca, seccate anche loro dall'assurdità di tutto questo.

Lui corruga le sopracciglia, sbattendo con la schiena felpata, sullo schienale dello sgabello, esponendosi a rovinare al suolo. Le sue braccia possenti e longilinee espletano dei motti circolari, provando a mantenere l'equilibrio che nel suo sangue non è presente.

«Edelyn devi dormire» protraggo questo teatrino, alzando gli occhi al cielo, prima di far schiantare i miei palmi sul piano gelido dell'isola marmorea, che hanno un formicolio particolare che si inverte tra le zone della mia mano, susseguente al crollo sulla superficie piatta.

Come dalie bluDove le storie prendono vita. Scoprilo ora